Una piccola isola di parole nel grande oceano della rete per condividere libri e mondi
sabato 22 maggio 2010
Questo è l'incipit, Calvino non c'entra
Non mi piace la parola incipit, mi sembra che tutto sommato abbia poca sostanza, benché ci siano incipit memorabili, meravigliosi, che sembrano caricarsi sulle spalle un intero romanzo.
Anche se poi ha ragione Italo Calvino quando sostiene un ragionamento del genere:
Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione... il mondo dato in blocco... Ogni volta l'inizio è quel momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è l'allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare
L'ho presa alla larga, ma alla fine voglio fare solo un taglia e incolla. Insomma, ecco le prime righe del mio Una domenica come le altre (Mauro Pagliai editore), il libro che presento mercoledì 26 (ore 18) a Firenze, alla Libreria de' Servi. Tutto qui.
Insomma, sono qui, in questa sala d’attesa dove tutto sembra combinato apposta per deprimermi, non un colore che mi riscaldi, non un filo di luce che filtri dall’esterno. Sono qui, in questa domenica che fino a poco fa conservava il passo dell’indolenza, in un pomeriggio di noia, di lancette che scorrono piano, di televisione in perenne sottofondo, di riti sempre uguali.
Sono qui e sono alle prese con questo pensiero fisso, che pare l’annuncio di un epilogo, anzi, senz’altro lo è. Lo so, per quanto mi sforzi di non essere troppo lucido, men che meno consapevole, tanto avrò tempo per concedermi all’evidenza, tempo per ripetermi che due più due fa sempre quattro, non cinque, certo.
Questo pensiero: quello che doveva succedere, sta succedendo. Semplicemente. E va da sé che questo è un pensiero già piegato alla rassegnazione, un pensiero che sa ma non vuole sapere. Un pensiero, per di più, che evoca quella sola parola che è sempre un rischio richiamare alle labbra, considerato il ragionevole sospetto che porti male.
Va da sé, come va da sé che uno vorrebbe che tutto questo fosse solo un film, da seguire comodamente in poltrona, aspettando i titoli di coda tra uno sbadiglio e un sorso di birra ormai tiepida. Un film, come no, anche a dispetto dell’esito scontato, della storia già vista, delle battute prevedibili. Però, che dite, se fosse davvero un film, lo lascerei scorrere in questo modo? O piuttosto non spingerei un pulsante, un qualsiasi pulsante, che so, un cancel, un rewind, un reset, un off, insomma proprio un qualsiasi bottone, pur di piantarla ora e subito? Se potessi riavvolgere la cassetta, se ci fosse la maniera di fermare, azzerare, perfino scassare tutto e poi levarsi via, che dite, sarei qui?
Invece è qui che sono e di là dalle porte che si chiudono a molla, di là da quel corridoio deserto e da quel silenzio che non si spiega, c’è mia madre.
Mia madre e una sala chirurgica. Mia madre e un’equipe che sta brigando da ore per riacciuffarla alla morte. Disturbo intestinale, mi aveva detto lei stamattina: sarà che è andato a male il baccalà. Un’ischemia, ha sentenziato la guardia medica piombata a casa nel primo pomeriggio. Un aneurisma all’aorta, hanno concluso al pronto soccorso. E me l’hanno portata via.
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