Un'autrice che mi dispiace di non aver avuto mai modo di conoscere e un libro, scritto da una signora di 93 anni, che mi riprometto di fare mio quanto prima.
Beh, su di me ha avuto davvero un buon effetto il titolo presentato sulla Repubblica di ieri da Leonetta Bentivoglio. Pensare che spesso solo alla parola "recensione" ci si tira indietro: più o meno sensatamente, credo. E invece quell'articolone su doppia pagina mi ha permesso di prendere confidenza con Diana Athill, inglesissima signora del libro nata, pensate, nel 1917 (l'anno di Lenin e di Caporetto), donna che ha attraversato il secolo con il suo lavoro di editor (ha lavorato tra gli altri con Philip Roth, Norman Mailer, Mordecai Richler, Margaret Atwood, Simone de Beauvoir, può bastare?).
Leggo che oggi Diana Athill si è ritirata in una casa di riposo piena di splendidi amici, così dice lei; che è un po' sorda e che cammina con un bastone. Ma evidentemente ha ancora molto da dirci e lo fa con un libro, Da che parte verso la fine, che la Bentivoglio racconta così:
Lei, che dopo i settant'anni ha cominciato a firmare saggi e critiche letterarie, riferisce di averlo scritto, già ultranovantenne, su precisa indicazione dell'editore. "Mi disse che avrebbe voluto leggere qualcosa sull'essere vecchi". Da quell'impulso è fiorito questo volumetto che è un po' autobiografia, un po' collage di prospettive esistenzialie un po' raccolta di riflessioni sul momenti dell'addio. Un testamento che si lascia assaporare come un piccolo-grande viaggio capace d'illuminare la giornata a chi lo sta leggendo e d'inculcargli la voglia di regalarlo alle ersone a cui vuole bene...
Come un bel regalo è quello che ci fa Diana, con la sua arte della vecchiaia.
Diana è diversa. Lieta dell'essere, del non rammaricarsi, del non cavillare, del non invidiare, del godere in pieno di se stesso, per questo va ringraziata.
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