E dunque, questo lo posso dire: I giorni della rotonda di Silvia Ballestra è uno di quei libri che pagina dopo pagina sciolgono la diffidenza iniziale, con la forza di una scrittura genuina, che sa raccontare cose, non vendere fumo. E non era mica facile: perché la quarta di copertina frega.
Come, la solita storia italiana che parte dagli anni Settanta e si sbraccia per arrivare più o meno ai nostri giorni?
Magari è la solita solfa: come erano belli quei tempi, quando si pensava di cambiare il mondo e tutti scendevano in piazza e sentivano di appartenere a qualcosa di più grande, tranne poi precipitare a rotta di collo nei terribili anni Ottanta.
Oppure, variante: belli, sì, quei tempi,ma quanta ideologia, quanta violenza, quanta incapacità di farsi i fatti propri, sarà stato quel che è stato, ma in fondo volete mettere, riscoprire gli affetti e la famiglia, un lavoro pulito e una vita senza grilli per la testa?
Ecco, mi aspettavo qualcosa del genere. La solita solfa in una delle due varianti.
E invece, invece ho scoperto qualcosa di diverso. Uno sguardo pulito e originale, che i fatti li racconta non dai luoghi dove (non) si è fatta la storia, ma dalla provincia profonda, San Benedetto del Tronto. Una narrazione che non sente il bisogno di raccontare tutto per filo e per segno, ma che sa andare al fondo di ciò che è stato.
Tre storie in una storia, tre atti, una piazza (la rotonda, appunto) come un fiume che si porta via tutto. Agorà e supermercato della droga. Politica e spaccio. Il tempo del futuro e quello della devastazione.
Gli anni che si fanno raccontare anche da una piazza che non è nemmeno Piazza Maggiore a Bologna o Piazza San Giovanni a Roma.
Una piazza come le mille e mille piazze del nostro paese. Una piazza ora grande come il mondo ora angusta come una galera.
Come, la solita storia italiana che parte dagli anni Settanta e si sbraccia per arrivare più o meno ai nostri giorni?
Magari è la solita solfa: come erano belli quei tempi, quando si pensava di cambiare il mondo e tutti scendevano in piazza e sentivano di appartenere a qualcosa di più grande, tranne poi precipitare a rotta di collo nei terribili anni Ottanta.
Oppure, variante: belli, sì, quei tempi,ma quanta ideologia, quanta violenza, quanta incapacità di farsi i fatti propri, sarà stato quel che è stato, ma in fondo volete mettere, riscoprire gli affetti e la famiglia, un lavoro pulito e una vita senza grilli per la testa?
Ecco, mi aspettavo qualcosa del genere. La solita solfa in una delle due varianti.
E invece, invece ho scoperto qualcosa di diverso. Uno sguardo pulito e originale, che i fatti li racconta non dai luoghi dove (non) si è fatta la storia, ma dalla provincia profonda, San Benedetto del Tronto. Una narrazione che non sente il bisogno di raccontare tutto per filo e per segno, ma che sa andare al fondo di ciò che è stato.
Tre storie in una storia, tre atti, una piazza (la rotonda, appunto) come un fiume che si porta via tutto. Agorà e supermercato della droga. Politica e spaccio. Il tempo del futuro e quello della devastazione.
Gli anni che si fanno raccontare anche da una piazza che non è nemmeno Piazza Maggiore a Bologna o Piazza San Giovanni a Roma.
Una piazza come le mille e mille piazze del nostro paese. Una piazza ora grande come il mondo ora angusta come una galera.
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