Che cosa sia davvero, non importa: biografia o reportage, libro della memoria o libro di viaggio.
Non importa, non importa davvero, perché più che in altri casi al cospetto de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza editore) sento davvero l'insufficienza e anche l'inutilità di ogni classificazione.
Non ne sento il bisogno. Per me, più semplicemente, questo è un libro necessario. Un libro in cui tuffarsi senza paura, senza pregiudizio. Senza farsi spaventare dalle sue dimensioni, dalle sue 722 pagine che un impegno senz'altro lo reclamano.
Con un libro così si inizia con una certa riluttanza - e con la cautela di chi parte per una maratona - ma poi non si ha più voglia di mollare, si arriva in fondo e quando ci si lascia l'ultima pagina ci si sente orfani di qualcosa di importante.
E dunque questa è la storia dello stesso autore - importante critico letterario americano di origine ebraica - che un giorno decide di saperne di più sulla sparizione di un ramo della famiglia completamente inghiottito dalla macchina dello sterminio nazista. Famigliari di cui ormai rimangono solo fotografie sbiadite, nomi riportati in qualche elenco, ricordi vaghi e compromessi dalle amnesie e dagli imbarazzi dei sopravvissuti.
Ma quello di cui si fa carico Mendelsohn non è solo un viaggio della memoria... è una vera e propria Odissea, un ritorno alle proprie radici, là dove le radici sono state brutalmente strappate, in quell'Europa dell'Est dove un intero popolo, con la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi villaggi, è stato annientato e oggi è come non fosse mai esistito.
E' un libro straordinario, Gli scomparsi. Insieme tenero ed epico; coinvolgente - come un grande noir - e sconvolgente - perché ancora capace di raccontarci qualcosa di nuovo e terribile sugli orrori di cui l'uomo è capace.
Sono convinto che leggendolo rimetterete al giusto posto anche Le benevole di Jonathan Littel, grande libro, certo, ma che si sostiene con troppi "effetti speciali".
E poi c'è una frase che mi ha colpito, una più di tutte nelle 722 pagine di Mendelsohn, una frase che, nel mio piccolo, mi rammenta cosa anch'io ho provato a fare raccontando la storia della professoressa Enrica Calabresi in Un nome (un nome, appunto, a cui restituire qualche brandello di vita).
E' quando l'autore capisce che in ballo non c'è più solo la comprensione del quando, del dove, del come sono morti i suoi famigliari:
Mi resi conto di aver seguito la pista sbagliata - voler scoprire com'erano morti invece di come erano vissuti
E da queste righe, esattamente a pagina 217 - Gli scomparsi diventa assai di più di un libro sulla scomparsa. Diventa un libro sulla vita che altri uomini hanno voluto cancellare.
Un libro che consiglio di cuore, per comprendere esattamente di cosa si parla quando si parla di dovere della memoria.
Non importa, non importa davvero, perché più che in altri casi al cospetto de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza editore) sento davvero l'insufficienza e anche l'inutilità di ogni classificazione.
Non ne sento il bisogno. Per me, più semplicemente, questo è un libro necessario. Un libro in cui tuffarsi senza paura, senza pregiudizio. Senza farsi spaventare dalle sue dimensioni, dalle sue 722 pagine che un impegno senz'altro lo reclamano.
Con un libro così si inizia con una certa riluttanza - e con la cautela di chi parte per una maratona - ma poi non si ha più voglia di mollare, si arriva in fondo e quando ci si lascia l'ultima pagina ci si sente orfani di qualcosa di importante.
E dunque questa è la storia dello stesso autore - importante critico letterario americano di origine ebraica - che un giorno decide di saperne di più sulla sparizione di un ramo della famiglia completamente inghiottito dalla macchina dello sterminio nazista. Famigliari di cui ormai rimangono solo fotografie sbiadite, nomi riportati in qualche elenco, ricordi vaghi e compromessi dalle amnesie e dagli imbarazzi dei sopravvissuti.
Ma quello di cui si fa carico Mendelsohn non è solo un viaggio della memoria... è una vera e propria Odissea, un ritorno alle proprie radici, là dove le radici sono state brutalmente strappate, in quell'Europa dell'Est dove un intero popolo, con la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi villaggi, è stato annientato e oggi è come non fosse mai esistito.
E' un libro straordinario, Gli scomparsi. Insieme tenero ed epico; coinvolgente - come un grande noir - e sconvolgente - perché ancora capace di raccontarci qualcosa di nuovo e terribile sugli orrori di cui l'uomo è capace.
Sono convinto che leggendolo rimetterete al giusto posto anche Le benevole di Jonathan Littel, grande libro, certo, ma che si sostiene con troppi "effetti speciali".
E poi c'è una frase che mi ha colpito, una più di tutte nelle 722 pagine di Mendelsohn, una frase che, nel mio piccolo, mi rammenta cosa anch'io ho provato a fare raccontando la storia della professoressa Enrica Calabresi in Un nome (un nome, appunto, a cui restituire qualche brandello di vita).
E' quando l'autore capisce che in ballo non c'è più solo la comprensione del quando, del dove, del come sono morti i suoi famigliari:
Mi resi conto di aver seguito la pista sbagliata - voler scoprire com'erano morti invece di come erano vissuti
E da queste righe, esattamente a pagina 217 - Gli scomparsi diventa assai di più di un libro sulla scomparsa. Diventa un libro sulla vita che altri uomini hanno voluto cancellare.
Un libro che consiglio di cuore, per comprendere esattamente di cosa si parla quando si parla di dovere della memoria.
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