Eugenio Montale, che lo stipendio lo portava a casa lavorando al Corriere della Sera, non aveva dubbi:
Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione all'amore
E se per il grandissimo poeta il giornalismo era il secondo mestiere, altri letterati che si sono cibati di giornalismo ci sono andati giù ancora più pesi. Per Gabriele D'Annunzio era la miserabile fatica quotidiana (ma tanto miserabile non era, a giudicare dai suoi compensi), per Tommaso Landolfi (che con le collaborazioni ai giornali si pagava i debiti di gioco) si trattava di letteratura alimentare, mentre Ennio Flaiano non risparmiava la sua penna intinta al curaro:
I giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?
Traggo questi esempi dall'ultimo numero di Tuttolibri, che dedica la sua apertura, a firma di di Mirella Serri, proprio al rapporto tra letteratura e giornalismo. E tutto gira intorno a questa domanda:
Cosa li ha spinti a indossare l'elmetto e a scendere in campo per quel medium non sempre apprezzato?
Domanda legittima, a cui peraltro non mi sembra difficilissimo rispondere: i compensi delle collaborazioni più la circolazione della firma su testate autorevoli mi sembra possano essere motivo sufficiente.
Mi interessa più un'altra domanda: perché tanto sputare nel piatto in cui mangia?
E aggiungo: perché lo scrittore deve sentirsi degradato quando fa il giornalista (ovvero lo scribacchino fesso di Carlo Emilio Gadda)?
Mi sbaglierò, ma mi pare che questo tradisca un limite di tanti nostri intellettuali, ben disposti a trincerarsi negli orti chiusi delle belle lettere (torri d'avorio?) piuttosto che spendersi nelle libere praterie delle notizie, delle inchieste, dei dibattiti quotidiani.
Eh sì che il nostro giornalismo avrebbe bisogno di buoni scrittori. Non di esercizi di stile, intendiamoci. Ma di ciò che lo scrittore può davvero regalare: curiosità, sguardi diversi, nuove parole per la realtà. E per le tante realtà che hanno bisogno di essere raccontate.
Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione all'amore
E se per il grandissimo poeta il giornalismo era il secondo mestiere, altri letterati che si sono cibati di giornalismo ci sono andati giù ancora più pesi. Per Gabriele D'Annunzio era la miserabile fatica quotidiana (ma tanto miserabile non era, a giudicare dai suoi compensi), per Tommaso Landolfi (che con le collaborazioni ai giornali si pagava i debiti di gioco) si trattava di letteratura alimentare, mentre Ennio Flaiano non risparmiava la sua penna intinta al curaro:
I giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?
Traggo questi esempi dall'ultimo numero di Tuttolibri, che dedica la sua apertura, a firma di di Mirella Serri, proprio al rapporto tra letteratura e giornalismo. E tutto gira intorno a questa domanda:
Cosa li ha spinti a indossare l'elmetto e a scendere in campo per quel medium non sempre apprezzato?
Domanda legittima, a cui peraltro non mi sembra difficilissimo rispondere: i compensi delle collaborazioni più la circolazione della firma su testate autorevoli mi sembra possano essere motivo sufficiente.
Mi interessa più un'altra domanda: perché tanto sputare nel piatto in cui mangia?
E aggiungo: perché lo scrittore deve sentirsi degradato quando fa il giornalista (ovvero lo scribacchino fesso di Carlo Emilio Gadda)?
Mi sbaglierò, ma mi pare che questo tradisca un limite di tanti nostri intellettuali, ben disposti a trincerarsi negli orti chiusi delle belle lettere (torri d'avorio?) piuttosto che spendersi nelle libere praterie delle notizie, delle inchieste, dei dibattiti quotidiani.
Eh sì che il nostro giornalismo avrebbe bisogno di buoni scrittori. Non di esercizi di stile, intendiamoci. Ma di ciò che lo scrittore può davvero regalare: curiosità, sguardi diversi, nuove parole per la realtà. E per le tante realtà che hanno bisogno di essere raccontate.
condivido e sottoscrivo parola per parola.
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