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(dalle regole del lager di Tuol Sleng, Cambogia)
Passano gli anni e ormai ci sta appannando il ricordo di quanto successe in Cambogia ai tempi di Pol Pot e dei Khmer rossi: quella bufera di follia criminale in cui si spazzarono via le città e si cercò di portare a termine ciò che gli storici, non trovando migliore definizione, chiamarono autogenocidio.
Per fortuna poi spunta un libro come Il sorriso di Pol Pot del giornalista svedese Peter Froeberg Idling, in Italia pubblicato da Iperborea. Che poi non è un libro di storia, ma piuttosto molte cose insieme: reportage, saggio morale, racconto in prima persona, collage di testimonianze...
Si legge di un soffio, questo libro, ma avvertendo un malessere crescente, forse paragonabile alle vertigini che si provano sul ciglio di un precipizio.
E ci sarebbe già molto da domandarsi su quella delegazione di civilissimi svedesi che girò per la Cambogia senza accorgersi di niente. Era il 1978:
Se restiamo nelle statistiche, nel momento in cui l'aereo degli svedesi si preparava all'atterraggio a Phnom Penh erano già morte un milione e trecentotrentamila persone
Ma questo esempio di imbarazzante miopia - né il primo né l'ultimo di un Occidente sempre pronto a ergersi come paladino dei diritti - è ancora nulla.
Quello che aleggia su ogni pagina, quello che rimane, è proprio quel sorriso. Il sorriso di colui che da ragazzo era considerato un viveur ed era andato a studiare a Parigi.
Cosa si agitò nel cuore e nella testa di quest'uomo che si lasciò inghiottire dalla giungla per poi nascondersi anche quando fece sua la Cambogia, in un culto dell'impersonalità fatto di silenzi e manovre dietro le quinte?
Come fu che il sogno di liberazione divenne questo incubo?
Forse è il solito punto interrogativo che ci lacera ogni qualvolta ci ritroviamo al cospetto di un male inesplicabile. Però quel sorriso complica ancora di più le cose. E ci perseguita con tutto ciò che non sarà ma possibile spiegare, nemmeno quando riusciremo a raccontare per filo e per segno ciò che è stato.
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