E’ strano, ci sono nomi che sembrano fatti apposta per coglierti di sorpresa, per evocarti l’esatto contrario di quello a cui si riferiscono. Ferrara è uno di questi. Lo pronunci ad alta voce ed esce fuori un suono che ha un che di duro, di implacabile. E’ una ruota dentata in movimento, una carta vetrata usata con energia, la scintilla che si sprigiona dal metallo.
Poi pensi alla città, alle sensazioni che ti desta, all’immaginario che la sua storia e le sue persone hanno sedimentato. Ferrara indolente e gaudente. Ferrara e le meraviglie del Rinascimento. Ferrara e le nebbie che arrivano dalla Padania e la nascondono come un bambino sotto le coperte rimboccate. I contorni sfumati e i giardini segreti, i trilli delle biciclette e il pane come solo qui sanno fare.
Ferrara mite e tollerante nei secoli. La città che più di tutte, in Italia, è inconcepibile senza l’impronta che le ha lasciato la sua comunità ebraica.
E’ una storia, questa, che affonda le sue radici nel passato remoto, fino a epoche su cui gli esperti ancora si accapigliano, ma che irrompe alla luce del sole nel Quattrocento, quando sono i duchi di Este a governare dispensando sicurezza e prosperità. Ferrara spalanca le sue porte agli ebrei in fuga dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Germania, da Napoli e da Roma. E la vita di questi profughi si intreccia con quella di una città che con essi cresce e si arricchisce. Spuntano come funghi forni, laboratori artigiani, stamperie.
Sinagoghe, scuole e cimiteri trovano posto all’interno delle mura dai mattoni rossi. Diverse famiglie costruiscono cospicue fortune. Generazione dopo generazione nascono e si consolidano legami che nemmeno la fine degli Estensi, il passaggio allo Stato della Chiesa e la vergogna del ghetto riusciranno a spezzare.
Ancora a cavallo tra Ottocento e Novecento a Ferrara la comunità ebraica conta un migliaio di anime - pensate, oggi si sono ridotte a poche decine - e soprattutto è una comunità viva, presente, attiva, a dispetto di tante antiche tradizioni che si stanno stingendo.
E’ in questa città che nasce Enrica.
Ferrara, certo, la accoglierà solo per un tratto di vita. Quando arriverà il momento di spiccare il volo, di giocarsi le carte che ha in mano, l’arrivederci sarà in realtà un congedo definitivo. Eppure qualcosa mi suggerisce che è proprio qui, e non altrove, che si doveva salutare questa nascita.
Sarà perché alla fine le pagine si confondono, perché rimandi e corrispondenze rilegano un altro libro, e quello che viene fuori è molto molto simile a un racconto di Giorgio Bassani.
Per un attimo ritorno al Giardino dei Finzi Contini, magari così come è stato tradotto in immagini da Vittorio De Sica. E non c’è ragione; ma già intuisco che l’esistenza di Enrica sarà impastata dei medesimi ingredienti: dolcezza e desideri inespressi; dolore rarefatto, trattenuto, per quanto si è già perso e senso di una tragedia incombente.
(da Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina editore)
Poi pensi alla città, alle sensazioni che ti desta, all’immaginario che la sua storia e le sue persone hanno sedimentato. Ferrara indolente e gaudente. Ferrara e le meraviglie del Rinascimento. Ferrara e le nebbie che arrivano dalla Padania e la nascondono come un bambino sotto le coperte rimboccate. I contorni sfumati e i giardini segreti, i trilli delle biciclette e il pane come solo qui sanno fare.
Ferrara mite e tollerante nei secoli. La città che più di tutte, in Italia, è inconcepibile senza l’impronta che le ha lasciato la sua comunità ebraica.
E’ una storia, questa, che affonda le sue radici nel passato remoto, fino a epoche su cui gli esperti ancora si accapigliano, ma che irrompe alla luce del sole nel Quattrocento, quando sono i duchi di Este a governare dispensando sicurezza e prosperità. Ferrara spalanca le sue porte agli ebrei in fuga dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Germania, da Napoli e da Roma. E la vita di questi profughi si intreccia con quella di una città che con essi cresce e si arricchisce. Spuntano come funghi forni, laboratori artigiani, stamperie.
Sinagoghe, scuole e cimiteri trovano posto all’interno delle mura dai mattoni rossi. Diverse famiglie costruiscono cospicue fortune. Generazione dopo generazione nascono e si consolidano legami che nemmeno la fine degli Estensi, il passaggio allo Stato della Chiesa e la vergogna del ghetto riusciranno a spezzare.
Ancora a cavallo tra Ottocento e Novecento a Ferrara la comunità ebraica conta un migliaio di anime - pensate, oggi si sono ridotte a poche decine - e soprattutto è una comunità viva, presente, attiva, a dispetto di tante antiche tradizioni che si stanno stingendo.
E’ in questa città che nasce Enrica.
Ferrara, certo, la accoglierà solo per un tratto di vita. Quando arriverà il momento di spiccare il volo, di giocarsi le carte che ha in mano, l’arrivederci sarà in realtà un congedo definitivo. Eppure qualcosa mi suggerisce che è proprio qui, e non altrove, che si doveva salutare questa nascita.
Sarà perché alla fine le pagine si confondono, perché rimandi e corrispondenze rilegano un altro libro, e quello che viene fuori è molto molto simile a un racconto di Giorgio Bassani.
Per un attimo ritorno al Giardino dei Finzi Contini, magari così come è stato tradotto in immagini da Vittorio De Sica. E non c’è ragione; ma già intuisco che l’esistenza di Enrica sarà impastata dei medesimi ingredienti: dolcezza e desideri inespressi; dolore rarefatto, trattenuto, per quanto si è già perso e senso di una tragedia incombente.
(da Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina editore)
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