Quel giorno mio padre era per me come Ettore davanti al piccolo Astianatte, quando si leva l'elmo e lo posa a terra per farsi riconoscere: il gesto più disarmante che potesse compiere dinanzi a suo figlio.
Quale immagine scegliere? Il gigante buono che, dopo aver attraversato il campo e trovato il gol, lo attraversa in senso contrario, le braccia levate al cielo, così come gli occhi, che guardano in alto e sorridono di una gioia pulita? Oppure lo stesso gigante buono che corre, corre ancora, solo che questa volta ha sua moglie a braccetto, e corrono insieme i due, ridono e corrono per prendere un treno, e quel treno non è un Freccia Rossa, è un treno di altri tempi, quando i viaggi non finivano più e negli scompartimenti c'era chi si portava dietro salame e fiasco?
Treni di altri tempi, ma anche calciatori di altri tempi. Figurarsi oggi, il capitano della nazionale che rincorre un treno, piuttosto che farsi bello con la sua fuoriserie. Calciatori di altri tempi, ma anche uomini di altri tempi.
Non importa tifare Inter - io mi tengo stretto la mia Fiorentina - non importa nemmeno aver seguito e ammirato il grande Giacinto Facchetti - e io l'ho fatto, ero ragazzino e sono ricordi che fanno bene - non importa nemmeno essere un appassionato di calcio - di questi tempi non c'è gran motivo. Se no che gente saremmo (Longanesi) di Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto, è un libro da leggere comunque.
E che non sia un libro sul calcio, tantomeno la biografia di un campione del quale hanno perso lo stampo, si capisce fin dal sottotitolo: Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto.
Ed è soprattutto questo, che Gianfelice, uomo che non vive di calcio ma di teatro, ha voluto trasmettere. La storia di un uomo solido e rigoglioso come un albero con radici fonde nella sua terra, ben nutrito della linfa degli affetti. Un uomo che parlava poco, ma mai a vanvera, e soprattutto con una sola lingua (Nella vita si dice una cosa ed è quella. Sennò che gente saremmo). Un uomo che non ha mai cercato il cono di luce dei riflettori, perché è altro ciò che conta davvero.
Poi una malattia terribile ha schiantato quell'albero che sembrava capace di reggere a tutto. E forse è quella l'immagine, non può che essere quella: un padre e un figlio, nel momento in cui il destino si svela con una diagnosi che non lascia scampo.
L'eroe di mille battaglie ora disarmato. E il figlio che troppo presto capisce che dovrà caricarsi per intero la vita sulle spalle e che ciò che prima di tutto la vita esige è un atto di amore.
Come un libro, un libro che è un atto di amore per il padre.
Quale immagine scegliere? Il gigante buono che, dopo aver attraversato il campo e trovato il gol, lo attraversa in senso contrario, le braccia levate al cielo, così come gli occhi, che guardano in alto e sorridono di una gioia pulita? Oppure lo stesso gigante buono che corre, corre ancora, solo che questa volta ha sua moglie a braccetto, e corrono insieme i due, ridono e corrono per prendere un treno, e quel treno non è un Freccia Rossa, è un treno di altri tempi, quando i viaggi non finivano più e negli scompartimenti c'era chi si portava dietro salame e fiasco?
Treni di altri tempi, ma anche calciatori di altri tempi. Figurarsi oggi, il capitano della nazionale che rincorre un treno, piuttosto che farsi bello con la sua fuoriserie. Calciatori di altri tempi, ma anche uomini di altri tempi.
Non importa tifare Inter - io mi tengo stretto la mia Fiorentina - non importa nemmeno aver seguito e ammirato il grande Giacinto Facchetti - e io l'ho fatto, ero ragazzino e sono ricordi che fanno bene - non importa nemmeno essere un appassionato di calcio - di questi tempi non c'è gran motivo. Se no che gente saremmo (Longanesi) di Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto, è un libro da leggere comunque.
E che non sia un libro sul calcio, tantomeno la biografia di un campione del quale hanno perso lo stampo, si capisce fin dal sottotitolo: Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto.
Ed è soprattutto questo, che Gianfelice, uomo che non vive di calcio ma di teatro, ha voluto trasmettere. La storia di un uomo solido e rigoglioso come un albero con radici fonde nella sua terra, ben nutrito della linfa degli affetti. Un uomo che parlava poco, ma mai a vanvera, e soprattutto con una sola lingua (Nella vita si dice una cosa ed è quella. Sennò che gente saremmo). Un uomo che non ha mai cercato il cono di luce dei riflettori, perché è altro ciò che conta davvero.
Poi una malattia terribile ha schiantato quell'albero che sembrava capace di reggere a tutto. E forse è quella l'immagine, non può che essere quella: un padre e un figlio, nel momento in cui il destino si svela con una diagnosi che non lascia scampo.
L'eroe di mille battaglie ora disarmato. E il figlio che troppo presto capisce che dovrà caricarsi per intero la vita sulle spalle e che ciò che prima di tutto la vita esige è un atto di amore.
Come un libro, un libro che è un atto di amore per il padre.
Nessun commento:
Posta un commento