Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.
E' una domenica pomeriggio, molto tempo che tutto è successo: lo stesso attacco di un altro grandissimo libro della memoria, Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani: sarà che abbiamo bisogno di questo tipo di sguardo, dalla quiete del dopo, per provare a capire cosa significa ricordare.
Boris Pahor, sloveno di Trieste, ripercorre la strada che lo porta al luogo che un tempo fu il suo lager; si mescola, lui sopravvissuto, ai turisti della memoria che scendono dai pullmann e scattano foto; comincia ad avvertire strane sensazioni, al cospetto di quegli estranei, come se di nuovo indossasse la giubba a strisce e gli zoccoli del campo di concentramento; e forse nemmeno lui saprà raccontare fino in fondo l'orrore - lui che la sorte ha voluto tra i "salvati" e non tra i "sommersi", per dirla con Primo Levi - ma intanto ricorda e racconta.
Libro di enorme dolore, libro non facile, Necropoli di Boris Pahor (Fazi editore). Libro sospeso tra diversi tempi, il presente dei turisti e il passato dei deportati. Libro che per noi italiani è quasi doveroso, per non archiviare le responsabilità del fascismo anche nella persecuzione della minoranza slovena.
Racconta Luigi Magris nell'introduzione che anche lui ha scoperto relativamente tardi Pahor, questo critico e appassionato cantore della mia e della sua Trieste. Distrazione e rimozione di uomini e donne che, con un'altra lingua, hanno reso ricca e vitale questa città che è la quintessenza della Mitteleuropa.
Da leggere due volte, Necropoli, non fosse che a dispetto di tutto quanto racconta è un regalo al domani. E nelle parole di Magris:
Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza.
E' una domenica pomeriggio, molto tempo che tutto è successo: lo stesso attacco di un altro grandissimo libro della memoria, Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani: sarà che abbiamo bisogno di questo tipo di sguardo, dalla quiete del dopo, per provare a capire cosa significa ricordare.
Boris Pahor, sloveno di Trieste, ripercorre la strada che lo porta al luogo che un tempo fu il suo lager; si mescola, lui sopravvissuto, ai turisti della memoria che scendono dai pullmann e scattano foto; comincia ad avvertire strane sensazioni, al cospetto di quegli estranei, come se di nuovo indossasse la giubba a strisce e gli zoccoli del campo di concentramento; e forse nemmeno lui saprà raccontare fino in fondo l'orrore - lui che la sorte ha voluto tra i "salvati" e non tra i "sommersi", per dirla con Primo Levi - ma intanto ricorda e racconta.
Libro di enorme dolore, libro non facile, Necropoli di Boris Pahor (Fazi editore). Libro sospeso tra diversi tempi, il presente dei turisti e il passato dei deportati. Libro che per noi italiani è quasi doveroso, per non archiviare le responsabilità del fascismo anche nella persecuzione della minoranza slovena.
Racconta Luigi Magris nell'introduzione che anche lui ha scoperto relativamente tardi Pahor, questo critico e appassionato cantore della mia e della sua Trieste. Distrazione e rimozione di uomini e donne che, con un'altra lingua, hanno reso ricca e vitale questa città che è la quintessenza della Mitteleuropa.
Da leggere due volte, Necropoli, non fosse che a dispetto di tutto quanto racconta è un regalo al domani. E nelle parole di Magris:
Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza.
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