Sono anni che ci passo davanti in bicicletta, lungo la ciclabile che ogni mattina mi conduce in centro. Quasi sempre mi viene di frenare, mettere il piede a terra e indugiare per qualche istante.
Mi fanno stare bene, quelle vetrine. Si capisce dalla prima occhiata che i libri non sono disposti a caso, che non sono messi lì solo per le classifiche di vendita, per il richiamo dell'autore, per la forza della casa editrice. Se c'è un ordine, risponde prima di tutto a un gusto personale. Chi cura quelle vetrine - uso il verbo curare come lo userei per l'orto di casa o per una cena preparata per gli amici - è come se si presentasse in questo modo: amo i libri, leggo i libri, se vi fidate questi sono i miei consigli.
Col tempo sono diventate parte di me, quelle due vetrine tra la ferrovia e i viali, sotto un prestigioso istituto di cultura che non sembra quasi vero possa vivere e prosperare in una strada che è solo di passaggio - sempre che il passaggio non sia rallentato dall'ennesimo ingorgo. Sono meglio del supplemento letterario della domenica, da sfogliare in poltrona: quante idee, quanti suggerimenti azzeccati, prima di ripartire con un nuovo colpo di pedali.
Sono ripassato l'altro giorno, dopo alcune settimane. Gran parte delle vetrine ora sono occupate da alcuni manifesti a lettere cubitali che annunciano forti sconti. Ed è evidente che non è per qualche iniziativa di promozione, ma perché anche per questa libreria c'è aria di chiusura. Saldi per cessazione attività.
Con tutte le belle dritte che questa libreria mi ha dato, credo di esserci entrato non più di due volte. Forse non ho mai incontrato l'uomo - o la donna - che ogni giorno per anni ha curato le sue vetrine.
Sono grato a quelle mani che hanno maneggiato tanti volumi, a quegli occhi che hanno macinato pagine e pagine anche per me. Ma mannaggia, che rimorso.
Per quanto mi riguarda avrò ancora bisogno di posti dove sbirciare i libri altrui, farmi consigliare, scambiare quattro chiacchiere con quello sconosciuto che solo per il fatto di trovarsi lì mi fa ben sperare.
Mi fanno stare bene, quelle vetrine. Si capisce dalla prima occhiata che i libri non sono disposti a caso, che non sono messi lì solo per le classifiche di vendita, per il richiamo dell'autore, per la forza della casa editrice. Se c'è un ordine, risponde prima di tutto a un gusto personale. Chi cura quelle vetrine - uso il verbo curare come lo userei per l'orto di casa o per una cena preparata per gli amici - è come se si presentasse in questo modo: amo i libri, leggo i libri, se vi fidate questi sono i miei consigli.
Col tempo sono diventate parte di me, quelle due vetrine tra la ferrovia e i viali, sotto un prestigioso istituto di cultura che non sembra quasi vero possa vivere e prosperare in una strada che è solo di passaggio - sempre che il passaggio non sia rallentato dall'ennesimo ingorgo. Sono meglio del supplemento letterario della domenica, da sfogliare in poltrona: quante idee, quanti suggerimenti azzeccati, prima di ripartire con un nuovo colpo di pedali.
Sono ripassato l'altro giorno, dopo alcune settimane. Gran parte delle vetrine ora sono occupate da alcuni manifesti a lettere cubitali che annunciano forti sconti. Ed è evidente che non è per qualche iniziativa di promozione, ma perché anche per questa libreria c'è aria di chiusura. Saldi per cessazione attività.
Con tutte le belle dritte che questa libreria mi ha dato, credo di esserci entrato non più di due volte. Forse non ho mai incontrato l'uomo - o la donna - che ogni giorno per anni ha curato le sue vetrine.
Sono grato a quelle mani che hanno maneggiato tanti volumi, a quegli occhi che hanno macinato pagine e pagine anche per me. Ma mannaggia, che rimorso.
Per quanto mi riguarda avrò ancora bisogno di posti dove sbirciare i libri altrui, farmi consigliare, scambiare quattro chiacchiere con quello sconosciuto che solo per il fatto di trovarsi lì mi fa ben sperare.
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