Questo libro non vuol essere né un atto d'accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale - anche se sfuggì alle granate - venne distrutta dalla guerra.
Ecco, comincia così, con questa premessa che è molto più di una premessa, uno dei libri più importanti, più conosciuti e più citati sulla Grande Guerra: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Sono contento di averlo riletto dopo tanti anni, se non sbaglio decisamente di più degli anni che separarono la prima dalla seconda guerra mondiale. Sono contento, e non solo perché scriveva splendidamente questo scrittore, che in realtà si chiamava Remark, tedesco che per firmare le sue opere volle francesizzare il suo cognome (come a unire ciò che la guerra aveva tragicamente diviso).
Contento, perché mi erano rimaste solo vaghe reminiscenze, di quella lettura da adolescente o poco più: gli episodi più terribili dell'orrendo massacro, i corpi scempiati, gli urli di dolore, la morte in differita dei feriti, le spaventose perdite tra le file di ragazzi passati senza soluzione di continuità dalla scuola alla trincea. Ciò che in fondo era più scontato e più evidente.
Non avevo colto l'altra tragedia, al centro di questo libro. Quella di un'intera generazione nutrita di ideali e illusioni che svanirono con il primo morto. E che anche se scampò alle granate, come Remarque segnala in quelle prime parole, perse comunque il suo futuro e prima ancora, forse, il suo cuore.
Sappiamo soltanto che ci siamo induriti, in una forma strana e misteriosa, confessa a un certo punto il protagonista. Ci sono ferite di guerra che non lasciano segni solo nel corpo e che nemmeno una lunga pace rimarginerà facilmente.
Un'immagine su tutte. I vecchi compagni di scuola che si affollano intorno al letto dell'amico morente pensando a impadronirsi dei suoi stivali. Forse era la meglio gioventù. E dopo?
Ecco, comincia così, con questa premessa che è molto più di una premessa, uno dei libri più importanti, più conosciuti e più citati sulla Grande Guerra: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Sono contento di averlo riletto dopo tanti anni, se non sbaglio decisamente di più degli anni che separarono la prima dalla seconda guerra mondiale. Sono contento, e non solo perché scriveva splendidamente questo scrittore, che in realtà si chiamava Remark, tedesco che per firmare le sue opere volle francesizzare il suo cognome (come a unire ciò che la guerra aveva tragicamente diviso).
Contento, perché mi erano rimaste solo vaghe reminiscenze, di quella lettura da adolescente o poco più: gli episodi più terribili dell'orrendo massacro, i corpi scempiati, gli urli di dolore, la morte in differita dei feriti, le spaventose perdite tra le file di ragazzi passati senza soluzione di continuità dalla scuola alla trincea. Ciò che in fondo era più scontato e più evidente.
Non avevo colto l'altra tragedia, al centro di questo libro. Quella di un'intera generazione nutrita di ideali e illusioni che svanirono con il primo morto. E che anche se scampò alle granate, come Remarque segnala in quelle prime parole, perse comunque il suo futuro e prima ancora, forse, il suo cuore.
Sappiamo soltanto che ci siamo induriti, in una forma strana e misteriosa, confessa a un certo punto il protagonista. Ci sono ferite di guerra che non lasciano segni solo nel corpo e che nemmeno una lunga pace rimarginerà facilmente.
Un'immagine su tutte. I vecchi compagni di scuola che si affollano intorno al letto dell'amico morente pensando a impadronirsi dei suoi stivali. Forse era la meglio gioventù. E dopo?
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