sabato 30 novembre 2013

Leggere è come interpretare uno spartito

Un libro può sopravvivere al suo autore, e anch'esso si muove, e si può anche dire che cambi, ma non allo stesso modo della narrazione orale. Cambia il modo in cui lo si legge.

Come hanno sottolineato molti critici, le opere letterarie sono ricreate da ciascuna generazione di lettori, che le rinnovano trovando in esse nuovi significati. Così il testo stampato di un libro è come una partitura musicale, che non è in sè musica, ma diventa musica quando è suonata - o "interpretata", come diciamo - da musicisti.

L'atto di leggere un testo è come suonare musica e ascoltarla allo stesso tempo, e il lettore diventa anche l'interprete.

(Margaret Atwood, Negoziando con le ombre, Ponte alle Grazie)

venerdì 29 novembre 2013

La storia di amore dell'anarchico di Buenos Aires

Singolare natura quella di quest'uomo. Si muoveva in maniera permanente in uno stato emotivo che andava dall'eroico al romantico, che straripava generosamente oltre i limiti dell'ordinario, del comune, della legalità, dell'ordine costituito. Non avrebbe mai potuto capire che cosa sono le imposte, le multe, i regolamenti, gli ordini, le patenti, le leggi, le proprietà. La società, che si fonda su questi principi, si sarebbe difesa con le unghie e con i denti da questo pericoloso dogmatico del libero arbitrio.

Che storia che ci racconta Osvaldo Bayer in Severino Di Giovanni. C'era una volta in America del sud (edizioni Agenzia X), una storia fatta di molti suoni e molte voci: i canti degli emigrati italiani, i colpi ripetuti degli scalpelli, le esplosioni secche delle armi da fuoco, le note triste del tango, il rumoreggiare delle folle in sciopero, le deflagrazioni delle bombe, i singhiozzi delle madri... Suoni, voci e anche odori: del mare, della polvere da sparo, dell'inchiostro.

Figura da romanzo, prima ancora che da biografia, quella di Severino Di Giovanni, anarchico dell'Abruzzo, scappato dall'Italia di Mussolini e deciso a inseguire la sua utopia tra le strade di Buenos Aires. Pronto a tutto, per questo.

Figura che non mi incanta, per il suo disprezzo della vita sua e altrui, per le bombe che sempre bombe sono, non importa il loro colore. Eppure che personaggio, Severino Di Giovanni, incredibile impasto di fanatismo e intelligenza, di coraggio e tenerezza.

Finì male, come era inevitabile: davanti a un plotone di esecuzione. Ma non è questo, sono sicuro, che vi resterà dentro dopo aver chiuso il libro di Bayer. Piuttosto la sua storia di amore con Josefina, l'adolescente che lo stregò. L'uomo che giocava con il tritolo sapeva sciogliersi in lettere d'amore come un liceale. Braccato come pericolo pubblico numero uno faceva di tutto per andare a prendere a scuola la fidanzatina.

Ci sono storie che sembrano uscire da un romanzo per abitare a modo loro la realtà. Una è di sicuro questa.




giovedì 28 novembre 2013

Quando il giovane inglese investì Hitler

Giuro, poi non ne parlo più, ma il primo dei 101 incontri di One on One di Craig Brown (edizioni Clichy) è troppo bello perché non ne parli.

Monaco, Germania 1931. John Scott-Ellis è un gentiluomo inglese di nemmeno 20 anni che ha frequentato Eton con scarso rendimento e che in seguito si farà conoscere soprattutto nel mondo delle corse dei cavalli. Ignoro perché ora stia girando per Monaco alla guida di una Fiat.

Hitler non è ancora arrivato al potere, però bisogna essere ciechi per capire cosa potrà fare, se gli sarà permesso. Intanto la marea del consenso cresce a vista d'occhio. Il  Mein Kampf  ha già venduto oltre 50 mila copie. Quel giorno è appena uscito dalla sede del partito di cui è il leader indiscusso. Attraversa la strada dimenticandosi di guardare a sinistra.

Sebbene stessi andando pianissimo, un uomo è sceso dal marciapiede e mi si è praticamente buttato sotto la macchina, ricorderà più tardi John, con parole che più o meno devono essere di molti investitori.

L'uomo con i baffetti ne esce bene. Si rialza, saluta, se ne va. Suppongo che tu non sappia chi era quell'uomo. Le parole del suo compagno di viaggio frulleranno per molto tempo nella testa del giovane. Anche tanti anni più tardi, quando avrà modo di dire:

Per qualche secondo, ho stretto il destino dell'Europa in queste mie maldestre mani. Era solo un po' scosso, ma se in quell'incidente l'avessi ucciso, avrei cambiato la storia del mondo.

Chissà, se con la macchina non fosse andato tanto piano....

mercoledì 27 novembre 2013

Se ogni incontro vale esattamente 1001 parole

Ho parlato già altre volte di One on One di Craig Brown (edizioni Clichy), uno dei libri che più mi hanno colpito in questi ultimi mesi, sarà che a me piacciono particolarmente le pagine che stimolano la fantasia tramite la prova provata che non c'è niente di più fantasioso della realtà.

 L'ho fatto inseguendo alcuni dei 101 incontri straordinari che l'autore mette in fila, in uno spettacolare girotondo dove l'inizio è la fine, la fine è l'inizio e a regnare sovrana in ogni caso è solo la casualità: a volte leggera nel suo manifestarsi, quasi sempre assai più pesa nelle conseguenze che da essa discendono.

Artisti, intellettuali, statisti, dittatori, filantropi.... non fosse per la penna di Craig Brown, che non cerca certo il discorso alto e conclusivo, potrebbe passare per una grottesca danza della vanità. Ma non è questo il senso del libro che piuttosto si muove sulla spinta dell'imprevidibilità dei caratteri umani e delle strane reazioni, non solo chimiche, provocate dalle loro relazioni.

Ce n'è da riflettere, anche così. Ma poi la cosa più bella si scopre solo in fondo. Si può essere anche maledettamente seri nel gioco. E Craig Brown il gioco l'ha scelto difficile e l'ha onorato fino in fondo. Non solo 101 incontri, ma 1001 parole - contate -  per ognuno di essi. Il che fa di One on One un libro esattamente di 101.101 parole. Craig Brown si premura di ricordare che anche i ringraziamenti, le citazioni in prefazione, la bibliografia sono di 101 parole: le cose quando si fanno si fanno bene.

Non so se sia più il sudore che gli è costato o il divertimento che si è procurato: comunque tanto di cappello. 

martedì 26 novembre 2013

Ci basta sentire una frase, per riconoscerci

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c'incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola.

Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole.

Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio d'una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d'un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo...

(Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi)

lunedì 25 novembre 2013

Incredibili, 70 anni di censura per Furore

Incredibile, è uno dei grandi romanzi del Novecento e come tale da sempre ne parliamo anche in Italia, direttamente o indirettamente, perché anche se non si è letto c'è sempre quel film straordinario, c'è sempre quella canzone del Boss - The ghost of Tom Joad. Facile che a scuola ce lo abbiamo perfino consigliato, sempre di un Nobel per la letteratura si parla, sempre di un romanzo anzi "del" romanzo sulla Grande Depressione si tratta. Eppure in Italia Furore di John Steinbeck non l'abbiamo ancora mai letto: letto così com'è, così com'è stato scritto.

Non lo avrei mai saputo, non fosse stato per una pagina di Simonetta Fiori di qualche giorno fa su Repubblica, titolo già eloquente: Il vero Furore. Da oggi sarà diverso perché è finalmente disponibile una nuova edizione Bompiani, nel segno della fedeltà al testo originale. Ma la cosa incredibile è che siano passati 70 anni senza averla a disposizione.

Tanti anni sono passati da quando, sotto il fascismo, Mussolini consentì la pubblicazione del capolavoro di Steinbeck. Che arrivò nelle librerie italiane nel gennaio 1940, alla vigilia della guerra. In fondo il libro poteva ancora servire nel contesto della battaglia alle "demoplutocrazie". Poco tempo dopo gli scenari sarebbero radicalmente cambiati.

Ma anche così, con il via libera fascista, Steinbeck andava bene fino a un certo punto, Andava tagliato, modificato, cloroformizzato in diversi passaggi. Quella prima traduzione doveva essere addomesticata. E così fu, nel segno della censura.

Non mi stupisce. Mi stupisce che sia durata 70 anni.

domenica 24 novembre 2013

Cercare belle parole è meglio che uccidere




La poesia ci accompagna dagli inizi.

Come l'amore,
come la fame, la peste, la guerra.
A volte i miei versi sono stati sciocchi
da provarne vergogna.
Ma di questo non mi scuso.
Credo che cercare belle parole
sia meglio
che uccidere e assassinare.

Jaroslav Seifert

sabato 23 novembre 2013

John Williams, strana cosa la gloria letteraria

Di lui, anzi della sua scrittura, Ian McEwan ha scritto parole così:

Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. 

 Parla di John Williams,  autore credo assai poco conosciuto in Italia, benché il suo Stoner venga considerato uno dei capolavori del Novecento e benché a proposito di un altro titolo, Butcher's crossing, qualcuno abbia scomodato persino Moby Dick.

Alla frase di McEwan sono arrivato leggendo una riflessione di Matteo Nucci sul Venerdì di Repubblica, in relazione a un altro libro di Williams, il suo Augustus, la storia dell'ascesa al potere di Ottaviano raccontata col piglio del grande narratore. Allora ho cercato su Internet e questo è quanto ho trovato.

Williams non ha scritto molto di più. Un altro titolo - Nothing but the night - può essere classificato come il suo primo insuccesso. A cui gli altri fecero seguito. Prima di morire stava lavorando a un altro manoscritto - The sleep of reason - titolo che ci sta più che bene visto l'argomento, la guerra.

Non ebbe fortuna in vita, questo figlio di contadini che arrivò a insegnare scrittura creativa nelle università americane. Per quanto mi riguarda mi sono ricordato solo ora di avere a casa un suo libro - mi ricordavo il titolo, Stoner, non l'autore. Augustus intendo comprarlo a breve. Dieci anni dopo la sua morte si comincia a parlare molto di John Williams. Strana cosa la gloria letteraria.

giovedì 21 novembre 2013

Se Bruce Chatwin non affascina i ventenni di oggi

Con il tempo, Chatwin ha visto diminuire la sua popolarità, un fenomeno comune a molti scrittori famosi, forse troppo famosi in vita per continuare ad esserlo da defunti.

Ma nel caso di Bruce c'è anche un altro fattore: i suoi libri riflettevano talmente la sua persona - noi lo immagimavamo sempre in maglietta e calzoncini, di aspetto molto più tedesco che inglese, con The Road of Oxian di Robert Byron ficcata nel sacco da montagna, mentre attraversava il Taklamakan, il deserto in cui si entrava, ma dal quale non si usciva - che senza di lui i libri non avevano più il sex appeal.

Abbiamo molti amato le storie di Chatwin, ma è sempre stato un affetto riservato alla nostra generazione, che si riconosceva in lui nell'irrequietezza di quel viaggiare, sempre alla ricerca di qualcuno o di qualcosa.

Adesso non so se il vecchio e un po' abusato fascino del grande viaggiatore riesca ad attrarre a sé i ragazzi di vent'anni (che vedo piegati da mane a sera sull'Iphone) in modo tale da farli entrare in libreria. 

Ma loro viaggiano in internet, i veri protagonisti del grande ritorno dello stanziale e del sedentario. 

(Stefano Malatesta, Bruce Chatwin, lettere spedite dalla fine del mondo, da Repubblica)

mercoledì 20 novembre 2013

Domenico Quirico: chi ha viaggiato in Africa può capire

Chi ha viaggiato in Africa può capire: Lei ti batte nel petto e tiene desti tutti i tuoi demoni, quando torni a casa il cuore non riesce a riabituarsi al quotidiano, ci metti mesi a decidere chi vuoi essere.

Non puoi mai dare per finito un libro di viaggio, ed è questo che fa battere così forte la mia anima quando chiudo Frobenius.

Forse, come lui, non tornerò più a quelle savane, ai fiumi belli e terribili, ai duri deserti assolati.

Ma so, come lui, che viaggiare ti allunga la vita, la riempie di volti e di paesaggi, di canti di suoni, di leggende e di orizzonti che ignoravi.

Le tue vecchie idee crollano e ne nascono di nuove.

Viaggiare in fondo è scoprire che tutti sbagliano, quando viaggi le tue convinzioni cadono con la stessa facilità degli occhiali, solo che è più difficile rimetterle al loro posto con un semplice gesto. 

(Domenico Quirico, da Che menzogna l'Africa dei selvaggi, su Tuttolibri della Stampa)

martedì 19 novembre 2013

Maugham, il più malinconico degli scrittori

Willie - mio zio William Somerset Maugham l'ho chiamato così fin da bambino - era certamente il più famoso scrittore vivente. E probabilmente il più malinconico.

Ecco, comincia così Conversazioni con zio Willie (Adelphi) un libro che ho preso soprattutto per fedeltà a uno degli scrittori a cui più tengo.

Pensavo fosse più o meno una biografia scritta dal nipote Robin (nipote ma anche discreto scrittore, autore tra l'altro de Il servo, il testo da cui Joseph Losey trasse un memorabile film con Dirk Borgade).

Una biografia, o qualcosa del genere, dedicata a uno degli autori più (meritatamente) fortunati del nostro Novecento. E invece non mi vado a imbattere fin dal terzo rigo in quella parola, malinconico?

E' così: Willie, nel ricordo di Robin, è ormai un fragile vecchietto, con la faccia solcata da una rete di rughe e una balbuzie sempre più accentuata. Un'anima persa a cui non bastano nè la fama nè una superlativa ricchezza che gli permette di vivere in una lussuosa villa a Cap Ferrat.

Willie è semplicemente un uomo disorientato dal presente e timoroso del futuro, che cerca qualche conforto nel passato. Un uomo, soprattutto, che ha paura di morire.

Sfortunatamente, il solo beneficio che talento e successo non avevano dato a Willie era la felicità.

Pranzava su piatti di argento, William Somerset Maugham, ma tutto questo contava poco o niente.

Sei il più famoso scrittore vivente. Sarà pur qualcosa, provava a confortarlo Robin.
E lui, tetro: Vorrei non aver mai scritto una parola.

Che sorpresa. Tante volte mi sono imbattuto nel male di vivere nei libri. Assai raramente - e certo non in autori quale Maugham - in qualcosa spinto fino a mettere in discussione anche il senso della scrittura e la sua possibilità di salvezza. O almeno di consolazione.

PS: il libro è comunque pieno di sulfureo humour britannico - e questo sì che me l'aspettavo. Il Maugham di battute così:

Alla mia età capita che amici e conoscenti ti muoiono attorno come mosche. Ma forse c'è il suo lato buono. Diminuiscono i rischi di querele.

lunedì 18 novembre 2013

Se la narrativa ha traslocato dalle grandi città

La verità è che negli ultimi anni le metropoli sono state sempre meno dei luoghi d'esperienza. Ridotte a centri amministrativi o di potere, a mete di shopping o residenze per ricchi (per non parlare dei musei a cielo aperto cui si vorrebbero ridotte tante nostre città), costose e poco inclusive, nei propri luoghi simbolo offrono assai di meno quelle occasioni d'avventura e di incontro (tra diversi) che davano sale alle grandi narrazioni.

Questa è la risposta che si dà Nicola Lagioia, in un bel paginone centrale di Repubblica, a sua firma, di qualche tempo fa (La caduta di Metropolis), in cui  si pone la questione della perdita di centralità della grande città nella letteratura contemporanea.

Bella questione e mutamento di scenari che non avevo colto completamente, anche se la realtà come sempre è più articolata: il fascino della provincia non è solo di oggi (non scrive da oggi Philip Roth, con la sua Newark che è un altro mondo rispetto a New York) e comunque c'è ancora tanta narrativa che vive grazie alla linfa vitale di metropoli come Berlino, Londra, Parigi, Barcellona.

Eppure è vero - come è vero che anche in Italia da anni c'è più provincia che Milano o Roma - è vero che Londra non più la Londra di Dickens, che Parigi non è più la Parigi di Proust e Balzac.

E sarà che la grande città ha perso diverse delle sue attrattive, sarà che sono altri i luoghi di vita e di lavoro cui si aspira nel nostro immaginario. Però mi piace, mi piace pensare che in questo modo il mondo si sia fatto più largo e che la letteratura sia stata brava ad abitarlo.


domenica 17 novembre 2013

Seifert, ogni giorno qualcosa comincia



Un fazzoletto bianco agita
chi si accommiata,
ogni giorno qualcosa finisce,
qualcosa di meraviglioso finisce.

Il piccione viaggiatore batte le ali contro l'aria
mentre torna a casa;
con speranza o senza speranza,
sempre torniamo a casa.

Asciugati le lacrime
e sorridi con gli occhi gonfi di pianto,
ogni giorno qualcosa comincia,
qualcosa di meraviglioso comincia.

(Jaroslav Seifert, Canzone)

sabato 16 novembre 2013

Se il bere non rende più artista l'artista

Hemingway o Fitzgerald non bevevano perché erano cretaivi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché é quello che fanno gli alcolisti.

Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all'alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora?

Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada.

(Stephen King, On Writing, autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer)

Auden: che cosa spera il canto?



Che cosa spera il canto? E le mani mosse
poco lontane dagli uccelli, i timidi, i gioiosi?
              Di essere attonito e felice,
              o, più di tutto, conoscere la vita?


Ma i belli si accontantano delle acute note dell'aria;
basta il calore; Oh, se l'inverno davvero
             s'ostina, s eil fievole fiocco di neve,
             che mai farà l'augurio, che cosa la danza? 

(W. H. Auden, Orfeo, da Un altro tempo, edizioni Adelphi)

venerdì 15 novembre 2013

Se ci si sente a casa nella provincia canadese

Prendiamo il Nobel a Alice Munro.

Oltre a una sapienza narrativa poco imitabile, il premio certifica una vocazione regionale in cui la scrittrice canadese non è sola.

Benché i suoi raccomti seguano le vicende di provinciali che in qualche caso tentano la carta della metropoli, il fuoco narrativo arde sempre dalle parti di quella Huron County in cui molti lettori italiani si sentono misteriosamente a casa.

Sebbene poco sembrerebbe legarci a una dura terra protestante dove la temperatura va spesso sottozero e la tenacia del pregiudizio ricorda quella di una provincia da noi quasi scomparsa, l'impressione è che i fondamentali della vita (guerre famigliari e scontri sentimentali, bisogno di affrancamento, elaborazione del lutto e gestione della solitudine) abbiano più speranza di venire in evidenza tra un emporio di ferramenta e una chiesa presbiteriana che sotto i tabelloni luminosi di Times Square.

(Nicola Lagioia, La caduta di Metropolis, Repubblica)

mercoledì 13 novembre 2013

La donna cieca che vide nel cuore di Mark Twain

E dunque c'è Mark Twain, che è un autore di successo, letto e acclamato, un uomo che si è fatto conoscere e amare per la sua penna capace di distrarre e divertire. E c'è Helen Keller, una donna a cui la vita sembra aver sottratto tutto, sorda e cieca com'è fin da piccola. Voi su quali spalle carichereste il fardello del dolore?

Meglio non dare niente per scontato.  Da One on One di Craig Brown (edizioni Clichy) traggo la storia di un altro incontro straordinario. Stormfield, in Connecticut, febbraio 1909. Mark Twain ed Helen Keller si incontrano.

Mark Twain, secondo copione, recita la parte del buontempone. Fa gli onori di casa, offre té e toast imburrati, la accompagna nella sala da biliardo. E non è facile accorgersene, ma Helen riesce a percepire la tristezza che lo affligge. Sarà che il dolore rende riconoscibile il dolore. Sarà che Helen, nella lotta di una vita intera che un giorno sarà raccontata nel film di Arthur Penn, Anna dei miracoli, ha saputo rendere più ampia e ospitale la sua stessa vita.

E' lei l'unica a capire che Mark Twain è un uomo che nella vinta ha anche perso molto. Prima di tutto una moglie e una figlia, portate via dalla malattia.

A Mark Twain viene voglia di confessarsi: Mi sento molto solo, a volte, quando sto seduto davanti al fuoco dopo che i miei amici se ne sono andati. I pensieri seguono le tracce del passato. Ripenso a Livy e Susy e mi sembra di annaspare nelle oscure pieghe di un sogno confuso....

Non si sarebbero più rivisti. Mark muore l'anno successivo. Non so se portandosi il ricordo di quella donna cieca, che aveva visto più lontana di tutti nel suo cuore.  

Senza più accendere il fuoco, bastava il racconto

C'era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione.

Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: "Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere", e questo era sufficiente.

Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: "Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva", e infatti bastava.

Finché, in un'altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: "Non possiamo più fare ul fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conoscimao più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia". 

E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.

(Beppe Sebaste, Oggetti smarriti e altre apparizioni, Laterza Contromano)

martedì 12 novembre 2013

Mankell, non solo noir: un ponte per l'Africa

Anni fa ho scritto una piéce intitolata Lampedusa.

Non capisco perché ci vogliano centinaia di morti prima che qualcosa cambi davvero, prima che si rifletta seriamente sull'immigrazione.

Quella di Lampedusa non è una questione italiana, ma dell'Europa tutta. 

Dove sono gli intellettuali? Dove sono i giovani? Vogliono solo diventare idoli della tv? Perché fino a oggi c'è stato silenzio? 

La cosa migliore che potremmo fare in questo momento è costruire un ponte che si colleghi all'Africa.

(Henning Mankell, da un'intervista di Dario Pappalardo su Venerdì di Repubblica)


Stephen King sulle storie da raccontare


Vorrei chiarire subito un punto. 

Non esiste un Deposito delle Idee, non c'è una Centrale delle Storie, un'Isola dei Best-Seller sepolti; le idee per un buon racconto spuntano a quel che sembra dal nulla, ti piombano addosso di punto in bianco: due pensieri che prima erano del tutto indipendenti tutto a un tratto trivano un punto d'incontro e si concretizzano in qualcosa di assolutamente nuovo.

Il tuo compito non è trovare queste idee ma riconoscerle quando si manifestano.

(Stephen King, On writing, Sperling)

domenica 10 novembre 2013

L'addio di Seifert: ho amato questa lingua


Ai milioni di versi del mondo
ho aggiunto solo un paio di strofe.
Non sono state più sagge del canto dei grilli.
Lo so. Perdonatemi.
Sto finendo.

Non sono state neppure le prime orme
sulla polvere della luna.
E se qualche volta hanno brillato,
non era la loro luce.
Ho amato questa lingua.

(Jaroslav Seifert, E addio)

sabato 9 novembre 2013

Applausi per una gavetta, un'umile gavetta

Gente che per decenni si è rassegnata alle sue ferite. Gente che non vuole vedere il mare o che non mangia il pesce – e neanche si rammenta più perché. Gente che un giorno si è sentita chiamare da un posto di cui nemmeno aveva mai sentito parlare.

 Gente che non si era mai vista prima, ma che si è riconosciuta all'istante, seduta intorno a un tavolo per la cena, una pizza al circolo offerta dal Comune, prima dell'incontro. Gente che poi ha applaudito a quell'immagine sullo schermo, pensate, una gavetta, un'umile gavetta

Quel giorno la gavetta di Dino Menicacci avrebbe meritato il posto di onore, nella sala del consiglio comunale. È stata brava a rammentare ciò che gli uomini si sono sforzati di dimenticare.

Ed è grazie a lei per cui oggi sono qui anch'io. Per quella gavetta e per quell'incontro.

Perché è così che è andata. Un giorno la storia della gavetta ha bussato alla mia porta e non mi ha più abbandonato.

E io sono entrato in punta di piedi dentro questa storia e non mi sono sentito un intruso.

E l'Oria lo sento anche mio, ora. E per questo sono grato a quella gavetta, per questo sono grato a Dino Menicacci. 

 (da Paolo Ciampi, La gavetta in fondo al mare, Romano editore)

giovedì 7 novembre 2013

La storia dell'uomo che uccise per le sue menzogne

Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera.

Ed è vero, cos'altro può essere raccontare la storia di Jean-Claude Romand, l'uomo che un giorno del 1993 massacrò moglie, figli, genitori perché non fossero testimoni della sua vita di menzogna? Già, forse può essere anche verità, semplicemente verità, quella verità che peraltro può avere molto a che fare sia con il crimine che con la preghiera.

Una verità da maneggiare con cautela, ma anche senza alibi. E senza gli effetti speciali che troppo spesso si accompagnano alle storie criminali che fanno audience televisiva e sollecitano reazioni viscerali.

Emmanuel Carrère, nel suo L'Avversario (Adelphi), non ha bisogno di nient'altro che del suo bisogno di verità, per raccontare la storia di un uomo che è arrivato a fare quello che ha fatto per essersi sempre sottratto alla verità. Lui che a tutti - anche ai famigliari - si era spacciato come un medico di successo, mentre in realtà trascorreva le sue giornate nei boschi o in un parcheggio dell'autostrada.

E' proprio la verità, credo, il tema centrale di questo libro capace di provocare terribili inquietudini. La verità, prima ancora del male capace di fare strage.

La verità che persegue Carrère, cercando di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, quella vita di solitudine, nello sforzo di entrare addirittura nella testa di uomo senza giustificazioni. La verità che insegue Jean-Claude Romand, come il cameriere che riacciuffa il cliente che non ha pagato il conto.

Ed è incredibile, ma spaventosamente vero, che a volte la vergogna di una vita senza verità si traduca in gesti estremi peggiori di qualsiasi menzogna.

mercoledì 6 novembre 2013

Cercare una persona tra le righe di un libro

Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l'hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità.

Poi il testo ci prende e dimentichiamo chi in esso ci ha immersi: tutta la forza di un'opera consiste proprio nel saper spazzare via anche questa contingenza!

Eppure, con il passare degli anni, accade che l'evocazione del testo faccia tornare alla mente il ricordo dell'altro: alcuni titoli sono allora di nuovo dei volti.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

martedì 5 novembre 2013

Quando il grande Zátopek smise di vincere

Non so voi, ma personalmente di tutte queste imprese, e record, e vittorie, e trofei, comincio un  po' a non poterne più. Il che cade a proposito perché, proprio adesso, Emil sta per mettersi a perdere.

Lo dice Jean Echenoz, raccontando nel suo Correre (Adelphi) la storia di Emil Zátopek, lo straordinario campione della Cecoslovacchia negli anni della Guerra Fredda, l'uomo che per anni e anni dominò le piste di atletiche. Lo dice Echenoz e io condivido: nelle storie dei grandissimi dello sport le pagine migliori non riguardano quasi mai le vittorie, ma le sconfitte.

Prima c'era solo un ragazzo a cui non piaceva lo sport e che mai avrebbe pensato di abbandonare la sua fabbrica, solo che quando i tedeschi occuparono il suo paese si mise a correre e non smise più. Presto sarebbe diventato un nome acclamato dalle folle. L'uomo che volava verso il traguardo, lasciandosi tutti dietro, nonostante il suo stile impossibile, senza eleganza, la sua corsa pesante, sofferta, scandita da scatti rabbiosi.

E non è poco, quello che c'era prima. Ma volete mettere con il dopo, quando il campione si scopre più vecchio e acciaccato, quando comincia a nascondere la pelata sotto un berretto col pompon, quando arrivano le sconfitte rifilate dai rivali più giovani e motivati.

E poi dopo, quando la Storia gli salta addosso a piedi pari. La Primavera di Praga e il sogno di un altro socialismo che è anche il suo sogno. I carrarmati sovietici e lui il campione, a cui viene portato via tutto. Per anni umiliato e costretto a fare lo spazzino per le vie di Praga: strano spazzino a cui nessuno dei colleghi consente di raccogliere la spazzatura e  con gli abitanti del quartiere che scendono per strada solo per applaudirlo.

Campione anche così. E una storia da scoprire tra le pagine di questo libro.

lunedì 4 novembre 2013

Pennac: l'uomo scrive libri perché si sa mortale

L'uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo.

La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun'altra, ma che nessun'altra potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva del suo destino ma intreccia una fitta rete di connovenze tra la vita e lui.

Piccolissime, segrete connovenze che dicono la paradossale felicità di vivere, nel momento stesso in cui illuminano la tragica assurdità della vita. Cosicché le nostre ragioni di leggere sono "strane" quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità.

I rari adulti che mi hanno dato da leggere hanno sempre ceduto il passo ai libri e si sono ben guardati dal chiedermi cosa avessi "capito".

A loro, naturalmente, parlavo delle loro mie letture. Vivi o morti che siano, a loro dedico queste pagine.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

domenica 3 novembre 2013

Se Emil Zátopek aveva un nome che correva

Un cognome, Zàtopek, che non diceva niente, che era solo un buffo cognome, e ora echeggia universalmente in tre sillabe mobili e meccaniche, implacabile valzer a tre tempi, rumore di galoppo, rombo di turbina, ticchettio di bielle o di valvole ritmato dal k finale, preceduto dalla z iniziale che già schizza via: fai zzz e in un attimo schizza via, come se questa consonante fosse uno starter.

Senza contare che la macchina è lubrificata da un nome fluido: l'oliatore Emil è forrnito insieme al motore Zàtopek.

E' quasi ingiusto: nella storia della corsa a piedi ci sono sati altri grandi artisti. Se non sono passati ai posteri, viene il dubbio che il loro cognome fosse ogni volta meno giusto, meno appropriato, meno azzeccato di quello di Emil....

(da Jean Echenoz, Correre, Adelphi)

sabato 2 novembre 2013

La conoscenza della notte di Robert Frost




Io sono uno che ha conosciuto la notte.
Ho fatto nella pioggia la strada avanti e indietro.
Ho oltrepassato l’ultima luce della città.

                                               Io sono andato in fondo al vicolo più tetro.
                                                 Ho incontrato la guardia nel suo giro
                                              ed ho abbassato gli occhi, per non spiegare.

                                                 Io ho trattenuto il passo e il mio respiro
                                              quando da molto lontano un grido strozzato
                                              giungeva oltre le case da un’altra strada,

                                         ma non per richiamarmi o dirmi un commiato;
                                            e ancor più lontano, a un’incredibile altezza,
                                                      nel cielo un orologio illuminato

                                      proclamava che il tempo non era giusto, né errato.
                                               Io sono uno che ha conosciuto la notte.

(Robert Frost, Conoscenza della notte, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori)

venerdì 1 novembre 2013

Una persona che muore è come il personaggio di un libro


Il concerto sta per finire. E ci voleva davvero, un bel concerto. Con che occhi che ora mi guardo intorno. Mi piacerebbe perfino attaccare discorso con qualcuno. Chiacchierare, bere qualcosa, chiacchierare ancora. Non lo farò, mi conosco. O forse sì, chissà.

Quello che so è che domani mattina partirò per il mare. Mi attende una settimana scarsa di ferie che penso di essermi meritato.

Saranno le prime vacanze in cui dovrò fare a meno delle telefonate di mia madre, di quegli squilli che mi coglievano sempre nei momenti meno opportuni.

E lo so che succederà. Sarà magari quando rientrerò nella camera di albergo per fare la doccia e prepararmi per la cena, oppure più tardi, quando uscirò per una passeggiata-boccata d’aria-gelato.

Sarò presto di ritorno, in ogni caso, perché in vacanza non ho mai fatto le ore piccole, mi piace tirare tardi solo con i miei amici, nella mia città, nel mio quartiere, nel mio locale, vai a capire perché, e insomma, sarò di ritorno presto e poi non mi rimarrà altro che un libro, o un po’ di televisione per non perdere l’abitudine.

Solo un attimo prima di spegnere la luce del comodino mi folgorerà un pensiero: «Mia madre oggi non ha telefonato». E qualcosa cambierà, nell’andamento lento di una sera di vacanza.

Lo so, il tempo delle sorprese sarà ancora inevitabilmente lungo. Succederà anche la prossima primavera, quando mi ritroverò con le cesoie davanti alle sue ortensie e la vorrò accanto per sciogliere un dubbio che da solo non ho mai risolto: che faccio, poto?

È così, la morte è in primo luogo una fuga di gesti, di abitudini, di situazioni. Per questo ce ne accorgiamo poco a poco. Una persona che ti lascia è più o meno come il personaggio di un libro: il libro finisce, ma non è che il personaggio ci muoia dentro una volta che giriamo l’ultima pagina.

(da  Paolo Ciampi, Una domenica come le altre, Mauro Pagliai editore)

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...