Confessa, Marco Revelli, di aver odiato la sua terra, come si può odiare una madre secca e muta, oppure un vuoto inabitale e senza contorni. O peggio come si può odiare ciò che scopriamo troppo simile a noi: man mano che mi conoscevo, temevo che non sarei stato altro da lei.
Così dice all'inizio, Marco Revelli, scrittore e musicista - ricordate Les Anarchistes? - delle Apuane. Dice così e si fa presto a non credergli. Perché è un atto di amore, ancorché contrastato e perplesso, il suo Il contro in testa. (Contromano Laterza). E poco importa che l'amore riguardi più le storie e il mito di una terra, che la terra stessa: anche con le persone, non si tratta prima di tutto di un'idea?
E dunque questa terra di marmo e di anarchia, di cave e di osterie, di fatiche e di fremiti di libertà. Le Apuane belle e ribelli, almeno così piace pensare. Montagne aggredite e divorate ma che ancora si ergono maestose. Sarà così anche per la gente?
Sai qual è la frase migliore per definire il carrarino? Il contro in testa, dice a un certo punto Silvano, in una delle tante chiacchiere bagnate di vino in queste pagine (Solo le osterie - rammenta Revelli - parevano essere quei luoghi dove cercare qualche verità viva di un passato scomparso alla vista, per respirarne i sensi rimasti).
E vengono in mente le antiche popolazioni apue che i romani riuscirono a soggiogare solo con la deportazione, i cavatori che brindavano alla fiaccola dell'anarchia, i fragili sognatori di una rivoluzione che non c'è mai, soprattutto in quegli anni Settanta dove ci si illuse di poter cambiare tutto. L'idea di una terra, davvero. Più che una terra. E le pagine di un libro che riescono a coltivare la nostalgia e a regalare il senso di un sentimento.
Così dice all'inizio, Marco Revelli, scrittore e musicista - ricordate Les Anarchistes? - delle Apuane. Dice così e si fa presto a non credergli. Perché è un atto di amore, ancorché contrastato e perplesso, il suo Il contro in testa. (Contromano Laterza). E poco importa che l'amore riguardi più le storie e il mito di una terra, che la terra stessa: anche con le persone, non si tratta prima di tutto di un'idea?
E dunque questa terra di marmo e di anarchia, di cave e di osterie, di fatiche e di fremiti di libertà. Le Apuane belle e ribelli, almeno così piace pensare. Montagne aggredite e divorate ma che ancora si ergono maestose. Sarà così anche per la gente?
Sai qual è la frase migliore per definire il carrarino? Il contro in testa, dice a un certo punto Silvano, in una delle tante chiacchiere bagnate di vino in queste pagine (Solo le osterie - rammenta Revelli - parevano essere quei luoghi dove cercare qualche verità viva di un passato scomparso alla vista, per respirarne i sensi rimasti).
E vengono in mente le antiche popolazioni apue che i romani riuscirono a soggiogare solo con la deportazione, i cavatori che brindavano alla fiaccola dell'anarchia, i fragili sognatori di una rivoluzione che non c'è mai, soprattutto in quegli anni Settanta dove ci si illuse di poter cambiare tutto. L'idea di una terra, davvero. Più che una terra. E le pagine di un libro che riescono a coltivare la nostalgia e a regalare il senso di un sentimento.
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