Ormai arrivano spesso da lontano i gialli e i noir migliori, quelli con una voce più autentica, con storie che non sono scontate e che non hanno bisogno di troppi effetti speciali. Arrivano da lontano e a volte sono anche capaci di portarci lontano: dentro paesi di cui finalmente si raccontano le vicissitudini e i tormenti.
Di tutto questo sono ancora più convinto dopo aver letto Mapuche di Caryl Fèrey (edizioni E/O), poliziesco sui generis che ha per protagonista Jana, giovane figlia di un popolo massacrato, e Rubèn, uno dei pochi sopravvissuti alle carceri clandestine di una feroce dittatura. Jana e Rubèn, ma soprattutto l'Argentina: perché è di questo paese che sembra non finire più, per geografia e sofferenze, che in realtà parla questo libro.
Colpi di scena a ripetizione, certo. Pagine da divorare una dietro l'altra, per scoprire come andrà a finire. Però è l'Argentina, soprattutto l'Argentina: non contesto, non fondale. Con le sue vicende che si dipanano tutte dietro le quinte della storia ufficiale, seguendo il filo ininterrotto della violenza e del crimine: dagli indios che nella pampa venivano presi a fucilate come conigli al giovani oppositori spinti giù dagli aerei, per non parlare della sorte di tanti figli di desaparecidos a cui sono è stato sottratto anche il nome...
E non l'Argentina qual era, piuttosto l'Argentina di oggi, restituita alla democrazia, ma ancora alle prese con i suoi fantasmi - fantasmi che spesso e volentieri non sono nemmeno fantasmi, ma persone in carne e ossa, in grado di rimettersi a nuovo per perseguire gli interessi di sempre...
E mi fermo qui, perché un poliziesco è sempre un poliziesco, vietato scoprire le carte,
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