Sono bastate queste prime righe per scaraventarmi dentro Accanto alla tigre (Fandango) di Lorenzo Pavolini: e per cercare di andare dietro, con queste pagine, a un mistero che non appartiene solo alla nostra (peggiore) storia. Appartiene, a pieno titolo, anche al mistero dell'uomo, alla sua capacità di commettere il peggio, alle incalcolabili conseguenze che il male può produrre sulla rete delle relazioni e degli affetti.
Perché questa non è una biografia su Alessandro Pavolini, uomo di spicco nell'Italia di Mussolini, ministro, intellettuale raffinato e capace anche di sorprendenti aperture, che però si farà ricordare solo per ciò che commetterà dopo l'8 settembre: gerarca tra i più spietati, capo delle brigate nere, fanatico deciso a cavalcare la tigre fino all'ultimo, in un'escalation di rappresaglie e altri orrori. Proprio lui, il Pavolini che a Firenze aveva difeso anche scrittori e giornalisti che finiranno presto nel partito comunista e che pure a Firenze si lascerà dietro una terribile striscia di sangue, con i suoi franchi tiratori a sparare sui civili.
Ma non è questo, il libro, questo libro che non può essere una biografia. A scriverlo è un nipote che porta il suo stesso cognome e che non ha mai avuto un nonno ad aspettarlo all'uscita di scuola. Che, anzi, a scuola scopre la foto dei gerarchi appesi a piazzale Loreto e scopre così la storia che in famiglia non gli è mai stata raccontata.
Nel frattempo è diventato uno scrittore, Lorenzo, Vive a Roma, la Roma di oggi divisa tra memoria e amnesia, ma anche comunità lacerata rispetto a un passato mai risolto: la Roma della convivenza multietnica ma anche dei centri sociali di estrema destra.
E il libro è soprattutto questo, il libro di un nipote che si interroga sull'ingombrante eredità del suo cognome. E che per questa strada non si nasconde - e non ci nasconde - a questo nostro presente.
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