Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima.
E per ritrovare la vera partenza del viaggio che Fulvio Ervas racconta in Se ti abbraccio non aver paura (Marcos y Marcos) bisogna davvero tornare molto indietro. A parecchi anni prima, quando un medico, con una manciata di parole, ha scaraventato una diagnosi come una condanna: "Suo figlio probabilmente è autistico". In mezzo, il poco tempo per dissolvere la speranza elargita con quel probabilmente e il molto tempo impiegato - a volte dissipato - per tentare ogni cura.
Finché arriva il giorno in cui c'è solo la strada davanti o piuttosto un aereo che decollerà anche per noi. Finché non c'è altro che un viaggio: non come una terapia o forse sì, anche come una terapia. Ma soprattutto un viaggio per sancire una volta per tutte il patto tra un padre e suo figlio. Per sottrarsi a quella condanna - o presunta tale - e sfidare le angustie di ciò che si ritiene bon senso e normalità.
I medici hanno scosso la testa: Andrea ha bisogno del suo ambiente, della sua casa, degli spazi e dei tempi di vita che conosce e a cui è abituato. E invece eccolo in questa straordinaria avventura on the road, in moto col padre da una costa all'altra degli States. E poi anche oltre, per non farsi mancare niente, il Messico, il Costa Rica, Panama... l'uno e l'altro Oceano come se non ci fosse nient'altro a poter contenere una vita che era facile catalogare come irrimediabilmente prigioniera.
Storia che, nel racconto di Ervas, forse in qualche pagina sa troppo di diario di viaggio scritto per interposta persona. Ma comunque storia vera e ancora più vera, perché non solo è ciò che successo, ma mette a nudo ciò che quasi sempre si nasconde come polvere sotto il tappeto.
Storia vera, storia che commuove anche i meno disposti al sentimentalismo. Perché sfido chiunque a lasciarsi alle spalle un ragazzo come Andrea, capace di sorprendere cameriere, sciamani e poliziotti con abbracci come agguati.
Lui e la sua maglietta con su scritto: se ti abbraccio non avere paura. Come a dire che a essere prigionieri siamo in realtà proprio noi.
E per ritrovare la vera partenza del viaggio che Fulvio Ervas racconta in Se ti abbraccio non aver paura (Marcos y Marcos) bisogna davvero tornare molto indietro. A parecchi anni prima, quando un medico, con una manciata di parole, ha scaraventato una diagnosi come una condanna: "Suo figlio probabilmente è autistico". In mezzo, il poco tempo per dissolvere la speranza elargita con quel probabilmente e il molto tempo impiegato - a volte dissipato - per tentare ogni cura.
Finché arriva il giorno in cui c'è solo la strada davanti o piuttosto un aereo che decollerà anche per noi. Finché non c'è altro che un viaggio: non come una terapia o forse sì, anche come una terapia. Ma soprattutto un viaggio per sancire una volta per tutte il patto tra un padre e suo figlio. Per sottrarsi a quella condanna - o presunta tale - e sfidare le angustie di ciò che si ritiene bon senso e normalità.
I medici hanno scosso la testa: Andrea ha bisogno del suo ambiente, della sua casa, degli spazi e dei tempi di vita che conosce e a cui è abituato. E invece eccolo in questa straordinaria avventura on the road, in moto col padre da una costa all'altra degli States. E poi anche oltre, per non farsi mancare niente, il Messico, il Costa Rica, Panama... l'uno e l'altro Oceano come se non ci fosse nient'altro a poter contenere una vita che era facile catalogare come irrimediabilmente prigioniera.
Storia che, nel racconto di Ervas, forse in qualche pagina sa troppo di diario di viaggio scritto per interposta persona. Ma comunque storia vera e ancora più vera, perché non solo è ciò che successo, ma mette a nudo ciò che quasi sempre si nasconde come polvere sotto il tappeto.
Storia vera, storia che commuove anche i meno disposti al sentimentalismo. Perché sfido chiunque a lasciarsi alle spalle un ragazzo come Andrea, capace di sorprendere cameriere, sciamani e poliziotti con abbracci come agguati.
Lui e la sua maglietta con su scritto: se ti abbraccio non avere paura. Come a dire che a essere prigionieri siamo in realtà proprio noi.
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