l'Africa in maniera non convenzionale.
Congo, il libro di David van Reybrouck vincitore del premio Terzani 2015, uscito per Feltrinelli nel 2014, è un maledetto miracolo.
Settecento pagine di storia, (di questo si tratta anche se nell'edizione italiana manca il sottotitolo Una storia) dalla nascita dello stato coloniale africano ai giorni nostri, raccontate con lo stile del reportage mescolando le voci di circa 500 intervistati. Un affresco corale che fuoriesce con la stessa potenza del fiume Congo che dal suo estuario intorbidisce le acque dell'oceano per chilometri e chilometri. Ma si sbaglierebbe a considerarla un opera di nicchia o riservata agli amanti dei reportage di viaggio: mezzo milione di copie vendute sono lì a testimoniare un successo di pubblico, vasto e trasversale.
Anche la critica, solitamente ingenerosa con i successi commerciali, è rimasta muta: perché il libro è inappuntabile sul piano della scrittura, delle fonti, dell'apparato bibliografico e si legge bene, maledettamente bene. Le recensioni entusiastiche oramai si sovrappongono, ed è comunissimo trovarne citazioni in articoli e reportage che abbiano per oggetto, fateci caso, non solo l'Africa centrale, ma l'intero continente. D'altronde, perché spremersi a dire qualcosa d'intelligente quando altri l'hanno già fatto?
Quando partiamo per leggere Congo, ci aspettiamo di risalire verso il cuore di tenebra dell'Africa con tutti i protagonisti che abbiamo conosciuto o immaginato. Non ne manca nessuno, allineati lungo il fiume della narrazione di Reybrouck. Ecco Stanley, sì proprio quello de "il dottor Livingstone suppongo", e Leopoldo II del Belgio che ebbe il Congo come sua proprietà privata. I funzionari belgi e la loro polizia, i contadini vessati e torturati dalla sete infinita dell'occidente per il caucciù, per l'oro, i diamanti e tutto il resto. E poi Mobuto e Lumunba, prima amici e poi l'uno il carnefice dell'altro, descritti in un'incredibile corsa in motorino che vale l'intero libro. E la guerra fredda, il post colonialismo e il saccheggio continuato di un paese troppo ricco per essere felice sia che si chiami Zaire o Congo. E ancora i conflitti razziali giunti a noi, l'altro mondo, con il suono dei machete dato che hutu e tutsi proprio in Congo ebbero le loro basi per colpire in Ruanda. Gli stessi hutu e tutsi che portarono sui loro scudi il nuovo padrone del paese: Kabila. E poi, l'oggi con le sue incertezze, tra il gigante cinese che fornisce a caro prezzo strade e infrastrutture, mentre la guerra per bande delle multinazionali usa i signori della guerra e i loro eserciti di soldati bambini per garantirsi l'approvvigionamento di tutte quelle materie preziose che da sempre l'occidente pretende.
C'è tutto il Congo e quindi gran parte dell'Africa centrale accompagnate da musica - una su tutti Indipendence Cha Cha Cha -, sapori e centinaia di storie tragiche, insanguinate, ironiche, allegre. Ma c'è di più ed è un vero miracolo in un epoca in cui l'originalità è merce rara, più del coltan.
Reybrouck ha un 'idea chiara, non convenzionale, del colonialismo e non la nasconde: L'occidente ha delle colpe terribili, ma la storia africana, a cinquant'anni dall'indipendenza, non è solo una reazione all'azione dei bianchi. Ci sono nobili cose ed enormi errori tutti africani: Lumunba, per esempio, osannato padre della nazione scelse, secondo l'autore, una via troppo rapida all'indipendenza, quando il paese non aveva ancora una struttura politica, economica e militare autonoma. Provocatorio denigrare un martire, padre della patria? Certo, ma non si ferma lì e ci descrive Mobuto non solo come il più longevo e sanguinario tra i dittatori, com' è stato in effetti, ma anche come lo statista che ha dato un'identità ad una nazione grande come un continente(1). Sarebbe sbagliato leggervi in controluce una critica di un conterraneo di valloni e fiamminghi, ai vani sforzi della Comunità Europea di creare un sentimento di comune appartenenza in tutti questi anni?
Ma dove Congo lascia il segno è nello smontare la dialettica arcaico/moderno, africano/europeo tramite la strada più difficile, quella che passa per i conflitti interetnici. Proprio quelli in cui anche l'occidente più liberale ha sempre visto una traccia selvaggia, tutta africana, direttamente collegata ad un oscuro tribalismo.
Quando Reybrouck ce li descrive, nelle loro terribili manifestazioni, ma con le loro cause squisitamente economiche, scioglie l'inganno che vede quei conflitti come arcaici,- dettati quasi da una differente umanità - e quelli europei "le contrapposizioni identitarie", come moderni (è sufficiente parlare di Balcani, di Ucraina o dell'egoismo odierno dei paesi europei?).
E questa è forse la descrizione più tenebrosa che Reybrouck ci lascia cadere nel piatto, un mondo "uguale" dove gli stessi fattori (stati in grave difficoltà economica, corruzione, leadership immature o miopi, circolazione delle armi e ricerca del profitto ad ogni costo), portano allo stesso risultato, né antico né moderno, solo spietato.
(1) molto chiara in questo senso l'intervista di Guido Caliron all'autore per il Manifesto del 2/10/2014
Massimiliano Scudeletti
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