Ogni tanto si fermavano per chiedere a nostra madre dove eravamo stati. "E' da un pezzo che non si vi si vede", potevano dire, oppure: "Sono passati secoli" - e lei alzava la testa e rispondeva solo "Oh, siamo stati via".
Siamo stati via: forse è proprio questo il vero titolo di un romanzo breve per pagine, straordinario per intensità quale Quando l'imperatore era un dio di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri). Per me non una sorpresa solo perché di questa autrice avevo già letto lo splendido Venivamo tutte per mare, di cui ora questo libro rappresenta il seguito ideale.
Insomma avevo già incontrato le giovani donne giapponesi che avevano lasciato le loro case e attraversato il Pacifico per sposare uomini che nemmeno conoscevano - matrimoni per procura e per interesse - in un'America che non era solo un altro continente, era un altro mondo. La loro voce collettiva, forte e vibrante, è ora sostituita da una prima persona dalla parola dolce, sommessa, segnata dal ricordo. Ed è attraverso questa parola che si racconta cosa successe a una di quelle donne - e a tutti i giapponesi di America - dopo Pearl Harbour.
Con la guerra quegli immigrati e quei figli di immigrati divennero anche i nemici sotto casa. Ogni certezza andò giù come un castello di carta. Il loro destino fu la deportazione. Anni senza lavoro, lontani da casa e dagli affetti. Anni in cui furono a tutti gli effetti cancellati dalla vita del loro paese.
Una pagine triste della storia americana. Eppure raccontata con una singolare delicatezza, con una sensibilità orientale mescolata alla lezione della narrativa americana.
Sobrietà e dolcezza. E la forza dei legami familiari, la tenacia delle madri, la capacità di meraviglia dei bambini, oltre tutto, anche oltre l'indifferenza di chi sapeva, doveva sapere.
Siamo stati via: forse è proprio questo il vero titolo di un romanzo breve per pagine, straordinario per intensità quale Quando l'imperatore era un dio di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri). Per me non una sorpresa solo perché di questa autrice avevo già letto lo splendido Venivamo tutte per mare, di cui ora questo libro rappresenta il seguito ideale.
Insomma avevo già incontrato le giovani donne giapponesi che avevano lasciato le loro case e attraversato il Pacifico per sposare uomini che nemmeno conoscevano - matrimoni per procura e per interesse - in un'America che non era solo un altro continente, era un altro mondo. La loro voce collettiva, forte e vibrante, è ora sostituita da una prima persona dalla parola dolce, sommessa, segnata dal ricordo. Ed è attraverso questa parola che si racconta cosa successe a una di quelle donne - e a tutti i giapponesi di America - dopo Pearl Harbour.
Con la guerra quegli immigrati e quei figli di immigrati divennero anche i nemici sotto casa. Ogni certezza andò giù come un castello di carta. Il loro destino fu la deportazione. Anni senza lavoro, lontani da casa e dagli affetti. Anni in cui furono a tutti gli effetti cancellati dalla vita del loro paese.
Una pagine triste della storia americana. Eppure raccontata con una singolare delicatezza, con una sensibilità orientale mescolata alla lezione della narrativa americana.
Sobrietà e dolcezza. E la forza dei legami familiari, la tenacia delle madri, la capacità di meraviglia dei bambini, oltre tutto, anche oltre l'indifferenza di chi sapeva, doveva sapere.
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