Ogni vita umana è un labirinto. Se si trova l'ingresso, ci si può aggirare dentro all'infinito.
A un certo punto è giusto fermarsi e interrogarsi su quanto si sta facendo. Lo fa anche Fredrik Sjöberg, scrittore svedese per cui la casa editrice Iperborea ha già proposto un paio di libri - uno dei quali, L'arte di collezionare le mosche, raccomando caldamente.
Lo fa ne L'arte della fuga, nel bel mezzo della storia che sta provando a raccontare, non senza esitazioni, anzi, con il sospetto in fondo di essere un ficcanaso, un profanatore di tombe: sentimento che comprendo e condivido anch'io, ogni qual volta uno è alle prese con la vita di una persona. Che cosa si sta davvero facendo?
Ecco, questo mi piace in particolare di un libro che, malgrado il titolo, non si muove sulla scia di un capolavoro di qualche anno fa quale L'elogio della fuga di Henri Laborit. Non è un saggio sui piaceri e le opportunità del cambiar vita e levare le tende. Piuttosto è un modo per dipanare le vicende di un tale Gunnar Widforss, inquieto acquarellista propenso al vagabondaggio e destinato a rifarsi un'altra vita in Nord America. Dimenticato in Svezia e in Europa, ma artista quotato sull'altro continente, è l'uomo che si taglia i ponti alle spalle e punta sull'altrove come un ago magnetico.
Curiosa parabola di vita, quella di Gunnar, che dalle isole di Stoccolma passa alla wildernss dell'Arizona e del Colorado fino a costruirsi una reputazione come il paesaggista per antonomasia dei parchi nazionali americani. Tanto che un giorno il suo nome sarà dato a una delle cime del Grand Canyon.
Curiosa parabola, davvero. E certo, facciamo bene a interrogarsi su quanto si sta facendo, chiedersi se è giusto ficcare il naso in questo modo. Ma è anche un piacere insostibuile divagare rispetto alla nostra vita, balzando così in quelle altrui.
A un certo punto è giusto fermarsi e interrogarsi su quanto si sta facendo. Lo fa anche Fredrik Sjöberg, scrittore svedese per cui la casa editrice Iperborea ha già proposto un paio di libri - uno dei quali, L'arte di collezionare le mosche, raccomando caldamente.
Lo fa ne L'arte della fuga, nel bel mezzo della storia che sta provando a raccontare, non senza esitazioni, anzi, con il sospetto in fondo di essere un ficcanaso, un profanatore di tombe: sentimento che comprendo e condivido anch'io, ogni qual volta uno è alle prese con la vita di una persona. Che cosa si sta davvero facendo?
Ecco, questo mi piace in particolare di un libro che, malgrado il titolo, non si muove sulla scia di un capolavoro di qualche anno fa quale L'elogio della fuga di Henri Laborit. Non è un saggio sui piaceri e le opportunità del cambiar vita e levare le tende. Piuttosto è un modo per dipanare le vicende di un tale Gunnar Widforss, inquieto acquarellista propenso al vagabondaggio e destinato a rifarsi un'altra vita in Nord America. Dimenticato in Svezia e in Europa, ma artista quotato sull'altro continente, è l'uomo che si taglia i ponti alle spalle e punta sull'altrove come un ago magnetico.
Curiosa parabola di vita, quella di Gunnar, che dalle isole di Stoccolma passa alla wildernss dell'Arizona e del Colorado fino a costruirsi una reputazione come il paesaggista per antonomasia dei parchi nazionali americani. Tanto che un giorno il suo nome sarà dato a una delle cime del Grand Canyon.
Curiosa parabola, davvero. E certo, facciamo bene a interrogarsi su quanto si sta facendo, chiedersi se è giusto ficcare il naso in questo modo. Ma è anche un piacere insostibuile divagare rispetto alla nostra vita, balzando così in quelle altrui.
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