Dice Marco che c'è stato un tempo in cui l'Arno si attraversava con il traghetto di Manisudicie, detto anche Caronte o Navichiere, e che prima di andar dall'altra parte c'era modo di fermarsi a bottega da lui per farsi i pesciolini fritti pescati in quella stessa acqua.
Dice Marco che in Italia - e per la verità non solo in Italia, ma in Italia forse peggio che altrove - è successo qualcosa di importante, solo che non ce ne siamo accorti: un'intera civiltà inghiottita in nemmeno 20 anni e un presente che ci ha lasciato con la terra diventata inutile e la tavola che non dà più piacere.
Dice Marco che vuole raccontare una storia che è la melanconia del mangiare contemporaneo, perché è vero che di cose ne sono successe tante e che la peggiore non è nemmeno quella di aver smarrito il senso del passato, vuoi mettere avere perso per strada il futuro, però con tutto questo che disastro quest'epoca di cibo industriale, frettoloso, senza stagione e senza sapore, anonimo e senz'anima.
Dice Marco che con questo abbiamo sacrificato molto altro, per esempio le radici che un tempo la gente aveva nei posti e il modo di stare insieme, per esempio a una festa comandata, quando a scialare in abbondanza era proprio chi gli altri giorni aveva meno. E che abbiamo sacrificato questo e altro quasi felici, un po' come chi taglia il ramo su cui è seduto.
Dice Marco di non farsi ingannare da un mondo che in effetti sembra andare in altra direzione, con tutti i suoi cuochi stellati, le degustazioni spettacolo, le ricette che dilagano in tv e i vini laureati come una tesi da 110 e lode. Perché poi quelle che ci mancano sono i vinelli spillati e generosi, le polpette col lesso rifatto come le faceva la zia o la nonna, l'insalata colta nel campo e le due cose cucinate lì per lì, in amicizia, giusto il tempo per apparecchiare.
Marco - che non conosco, ma che mi vien da chiamare così: Marco - è Marco Noferi, quasi laureato in filosofia e da molto anni alle prese con il vino e con l'olio in un pezzo di Toscana meno scenografico e meno turistico di altri, ma per questo più schietto e consigliabile. La sua conoscenza l'ho fatta l'altra giorno in treno - il lungo viaggio che faccio sempre per presentare libri in Puglia, perché mai sacrificherei alla rapidità dell'aereo la vista dell'Adriatico, con le sue acque che quasi accarezzano il binario. Il mare e il suo libro: Amore mio, non piangere (Aska edizioni). Con un sottotitolo che è già una chiave di lettura: La melanconia del mangiare contemporaneo, appunto.
L'ho cominciato quasi distrattamente, senza molte aspettative: giusto per il consiglio di un editore comune. Poche pagine mi sono bastate per sentirmi a mio agio come al pub che da 20 anni e passa è quello degli amici. Con questa scrittura che non è del saggista, ma piuttosto del poeta. O almeno il poeta cose siamo portati a considerare tale in Toscana, da Beatrice di Pian degli Ontani a Roberto Benigni, poeta di cose semplice e inoppugnabili, poeta di voli lirici che non lasciano a terra il corpo, di cieli incollati alla terra, di frasi che non girano intorno, per reverenza e ipocrisia.
Solo che poi qui dentro ci sono anche il Pasolini delle lucciole e il Veronelli del bere schietto, per non dire di Carlo Petrini e di Vandana Shiva, oppure di alcuni grandi di un passato, recente ma troppo passato, in cui l'intellettuale provava a ridare le carte - sì, ci sono persino Primo Moroni e Guy Debord.
Ricordi, sapori, incontri, lampi di pensieri, battute, citazioni: un libro che mescola i tempi e i luoghi, che smarrisce il filo come si fa mescolando parole e chiacchiere con gli amici, che lo ritrova sempre perché è al cuore che si punta.
E alla fine non so se invidiare Marco - per le scorribande con Manuel Vasquez Montalbàn, il grande catalano, per le frittelle dell'Assuntina, per il suo vinello capace di regalare poesia civile. O piuttosto per la sua capacità di riaprire un varco nel tempo, di recuperare vita dopo che siamo morti per troppa andata senza ritorno.
Non so se invidiarlo oppure aspettarlo a piedi dritti e gola secca a una qualche sua presentazione, per ragionare di vini e di possibilità.
Dice Marco che in Italia - e per la verità non solo in Italia, ma in Italia forse peggio che altrove - è successo qualcosa di importante, solo che non ce ne siamo accorti: un'intera civiltà inghiottita in nemmeno 20 anni e un presente che ci ha lasciato con la terra diventata inutile e la tavola che non dà più piacere.
Dice Marco che vuole raccontare una storia che è la melanconia del mangiare contemporaneo, perché è vero che di cose ne sono successe tante e che la peggiore non è nemmeno quella di aver smarrito il senso del passato, vuoi mettere avere perso per strada il futuro, però con tutto questo che disastro quest'epoca di cibo industriale, frettoloso, senza stagione e senza sapore, anonimo e senz'anima.
Dice Marco che con questo abbiamo sacrificato molto altro, per esempio le radici che un tempo la gente aveva nei posti e il modo di stare insieme, per esempio a una festa comandata, quando a scialare in abbondanza era proprio chi gli altri giorni aveva meno. E che abbiamo sacrificato questo e altro quasi felici, un po' come chi taglia il ramo su cui è seduto.
Dice Marco di non farsi ingannare da un mondo che in effetti sembra andare in altra direzione, con tutti i suoi cuochi stellati, le degustazioni spettacolo, le ricette che dilagano in tv e i vini laureati come una tesi da 110 e lode. Perché poi quelle che ci mancano sono i vinelli spillati e generosi, le polpette col lesso rifatto come le faceva la zia o la nonna, l'insalata colta nel campo e le due cose cucinate lì per lì, in amicizia, giusto il tempo per apparecchiare.
Marco - che non conosco, ma che mi vien da chiamare così: Marco - è Marco Noferi, quasi laureato in filosofia e da molto anni alle prese con il vino e con l'olio in un pezzo di Toscana meno scenografico e meno turistico di altri, ma per questo più schietto e consigliabile. La sua conoscenza l'ho fatta l'altra giorno in treno - il lungo viaggio che faccio sempre per presentare libri in Puglia, perché mai sacrificherei alla rapidità dell'aereo la vista dell'Adriatico, con le sue acque che quasi accarezzano il binario. Il mare e il suo libro: Amore mio, non piangere (Aska edizioni). Con un sottotitolo che è già una chiave di lettura: La melanconia del mangiare contemporaneo, appunto.
L'ho cominciato quasi distrattamente, senza molte aspettative: giusto per il consiglio di un editore comune. Poche pagine mi sono bastate per sentirmi a mio agio come al pub che da 20 anni e passa è quello degli amici. Con questa scrittura che non è del saggista, ma piuttosto del poeta. O almeno il poeta cose siamo portati a considerare tale in Toscana, da Beatrice di Pian degli Ontani a Roberto Benigni, poeta di cose semplice e inoppugnabili, poeta di voli lirici che non lasciano a terra il corpo, di cieli incollati alla terra, di frasi che non girano intorno, per reverenza e ipocrisia.
Solo che poi qui dentro ci sono anche il Pasolini delle lucciole e il Veronelli del bere schietto, per non dire di Carlo Petrini e di Vandana Shiva, oppure di alcuni grandi di un passato, recente ma troppo passato, in cui l'intellettuale provava a ridare le carte - sì, ci sono persino Primo Moroni e Guy Debord.
Ricordi, sapori, incontri, lampi di pensieri, battute, citazioni: un libro che mescola i tempi e i luoghi, che smarrisce il filo come si fa mescolando parole e chiacchiere con gli amici, che lo ritrova sempre perché è al cuore che si punta.
E alla fine non so se invidiare Marco - per le scorribande con Manuel Vasquez Montalbàn, il grande catalano, per le frittelle dell'Assuntina, per il suo vinello capace di regalare poesia civile. O piuttosto per la sua capacità di riaprire un varco nel tempo, di recuperare vita dopo che siamo morti per troppa andata senza ritorno.
Non so se invidiarlo oppure aspettarlo a piedi dritti e gola secca a una qualche sua presentazione, per ragionare di vini e di possibilità.
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