Il bene prevale numericamente sul male, ma non sa fiutare il pericolo.
Ha quasi un quarto di secolo, questo libro, ma ben pochi sono i granelli di polvere che si sono depositati sulle sue pagine, molte le parole, come queste, che andrebbero scolpite. Non è solo il reportage appassionato di un grande giornalista viaggiatore nella guerra che alla fine del secolo scorso insanguinò i Balcani, in paesi cui oggi non ci viene più di riferirci come ex Jugoslavia. E' molto di più, come per i libri di un altro reporter nei conflitti del Novecento, meglio se periferici e dimenticati, Ryszard Kapuscinski: che in Angola come in Bolivia raccontava storie che avevano piedi ben piantati per terra, ma non appartenevano solo alla cronaca.
Così Paolo Rumiz e questo suo libro, Maschere per un massacro (Feltrinelli), opportunamente riedito a parecchi anni di distanza dalla prima uscita, mentre l'ex-Jugoslavia pareva già finita negli archivi della storia. Invece è ancora qui, deve essere ancora qui, con la sua lezione che vale per ogni guerra e direi per ogni crisi - anche laddove le armi tacciono - per ogni situazione in cui la tentazione di giocare a carte coperte o false è troppo forte.
Un imbroglio, questa è la parola con cui Rumiz riassume ciò che si mise in moto per innescare quel conflitto. Perchè tale fu quel massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. Imbroglio di cui molti furono complici, anche solo per conformismo, ignavia, pigrizia intellettuale. Persino rispettabili professori di linguistica o storici di secoli andati: perchè per predisporre la guerra si mobilitarono i vocabolari, si chiamarono a raccolta i morti, si fece del passato un deposito di munizioni.
Maschere e bugie, ma anche una verità da opporre: L'odio esplode solo se c'è qualcuno che decide di servirsene. Individuare chi e come, ecco cosa può fare il buon giornalista, l'uomo che ha occhi per guardare e voce per le domande giuste.
Ha quasi un quarto di secolo, questo libro, ma ben pochi sono i granelli di polvere che si sono depositati sulle sue pagine, molte le parole, come queste, che andrebbero scolpite. Non è solo il reportage appassionato di un grande giornalista viaggiatore nella guerra che alla fine del secolo scorso insanguinò i Balcani, in paesi cui oggi non ci viene più di riferirci come ex Jugoslavia. E' molto di più, come per i libri di un altro reporter nei conflitti del Novecento, meglio se periferici e dimenticati, Ryszard Kapuscinski: che in Angola come in Bolivia raccontava storie che avevano piedi ben piantati per terra, ma non appartenevano solo alla cronaca.
Così Paolo Rumiz e questo suo libro, Maschere per un massacro (Feltrinelli), opportunamente riedito a parecchi anni di distanza dalla prima uscita, mentre l'ex-Jugoslavia pareva già finita negli archivi della storia. Invece è ancora qui, deve essere ancora qui, con la sua lezione che vale per ogni guerra e direi per ogni crisi - anche laddove le armi tacciono - per ogni situazione in cui la tentazione di giocare a carte coperte o false è troppo forte.
Un imbroglio, questa è la parola con cui Rumiz riassume ciò che si mise in moto per innescare quel conflitto. Perchè tale fu quel massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. Imbroglio di cui molti furono complici, anche solo per conformismo, ignavia, pigrizia intellettuale. Persino rispettabili professori di linguistica o storici di secoli andati: perchè per predisporre la guerra si mobilitarono i vocabolari, si chiamarono a raccolta i morti, si fece del passato un deposito di munizioni.
Maschere e bugie, ma anche una verità da opporre: L'odio esplode solo se c'è qualcuno che decide di servirsene. Individuare chi e come, ecco cosa può fare il buon giornalista, l'uomo che ha occhi per guardare e voce per le domande giuste.
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