Mi chiedo se ogni essere umano non sia per caso chiamato a prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano, se ogni vita non debba offrire la propria voce, per quanto flebile essa sia, ad almeno un'altra vita.
Ecco, questa frase è come un relitto che torna a galla dopo il naufragio, nel grande mare di parole che è l'ultimo libro di Paolo Miorandi, L'unica notte che abbiamo (Exòrma editore). Mare che, come tutti i mari, è superficie e profondità, correnti nascoste e riflessi di luce, alghe che si agitano sul fondale.
Anche una sola voce, anche una sola vita: questo dice la frase a cui mi aggrappo, per rimanere a galla. E non è solo una frase, è qualcosa di cui sono profondamente convinto. Rammento la raccomandazione del Talmud: chi salva una vita salva il mondo intero. Per analogia credo che prendendo in consegna una voce ci si faccia responsabile non solo di quella voce, ma delle altre voci in quella voce. Perché quest'ultima diventa pulviscolo e catena di Sant'Antonio, è sasso che nello stagno provoca cerchi concentrici.
Funziona così la voce che l'io narrante raccoglie: la voce di una vicina di casa conosciuta grazie a un errore postale, le parole che varcano il buio e attraversano la finestra. A volte così leggere da accarezzare le stelle, a volte pesanti più del piombo.
E quanto ha da raccontare questa voce. Tutta la storia di una famiglia, cent'anni di vicende come gli intarsi di un mosaico, come un groviglio che tale rimarrà, perchè non ci può essere un epilogo, tanto meno un senso da spremere. Solo inseguire le persone, solo passare il testimone, solo viaggiare avanti e indietro nel tempo, cercando sguardi.
E ci sono violenze, in questa storia, ci sono separazioni e conflitti, ci sono persone che partono e di cui non si sa più niente, persone che è meglio che non tornino, persone ferite e sigillate nel loro dolore, persone che sbagliano matrimonio, ripongono via i sogni oppure si consumano nel bere di osteria. E c'è anche un paese di montagna svuotato di vita, dove resiste solo qualche ricordo. C'è anche una montagna fredda e gelata.
Ma prima ancora e sempre questa voce, questo buio, questo alveare di parole. In fondo quella stesso sentimento di fragilità che mi sembra di aver colto in un altro gran libro di Miorandi, Verso il bianco, sulle tracce di Robert Walser, talento complesso, talento di scrittore come una cornacchia che si alza in volo dopo una notte di neve.
Questa voce: complessa, inquieta, ipnotica. Una sfida per il lettore. Da raccogliere: questo è uno di quei libri - di quelle voci - che non svaniscono.
Ecco, questa frase è come un relitto che torna a galla dopo il naufragio, nel grande mare di parole che è l'ultimo libro di Paolo Miorandi, L'unica notte che abbiamo (Exòrma editore). Mare che, come tutti i mari, è superficie e profondità, correnti nascoste e riflessi di luce, alghe che si agitano sul fondale.
Anche una sola voce, anche una sola vita: questo dice la frase a cui mi aggrappo, per rimanere a galla. E non è solo una frase, è qualcosa di cui sono profondamente convinto. Rammento la raccomandazione del Talmud: chi salva una vita salva il mondo intero. Per analogia credo che prendendo in consegna una voce ci si faccia responsabile non solo di quella voce, ma delle altre voci in quella voce. Perché quest'ultima diventa pulviscolo e catena di Sant'Antonio, è sasso che nello stagno provoca cerchi concentrici.
Funziona così la voce che l'io narrante raccoglie: la voce di una vicina di casa conosciuta grazie a un errore postale, le parole che varcano il buio e attraversano la finestra. A volte così leggere da accarezzare le stelle, a volte pesanti più del piombo.
E quanto ha da raccontare questa voce. Tutta la storia di una famiglia, cent'anni di vicende come gli intarsi di un mosaico, come un groviglio che tale rimarrà, perchè non ci può essere un epilogo, tanto meno un senso da spremere. Solo inseguire le persone, solo passare il testimone, solo viaggiare avanti e indietro nel tempo, cercando sguardi.
E ci sono violenze, in questa storia, ci sono separazioni e conflitti, ci sono persone che partono e di cui non si sa più niente, persone che è meglio che non tornino, persone ferite e sigillate nel loro dolore, persone che sbagliano matrimonio, ripongono via i sogni oppure si consumano nel bere di osteria. E c'è anche un paese di montagna svuotato di vita, dove resiste solo qualche ricordo. C'è anche una montagna fredda e gelata.
Ma prima ancora e sempre questa voce, questo buio, questo alveare di parole. In fondo quella stesso sentimento di fragilità che mi sembra di aver colto in un altro gran libro di Miorandi, Verso il bianco, sulle tracce di Robert Walser, talento complesso, talento di scrittore come una cornacchia che si alza in volo dopo una notte di neve.
Questa voce: complessa, inquieta, ipnotica. Una sfida per il lettore. Da raccogliere: questo è uno di quei libri - di quelle voci - che non svaniscono.
Nessun commento:
Posta un commento