Ci vai per rendere omaggio, per soddisfare curiosità, per riannodare i fili di una relazione consentita dai libri. Ci vai per ascoltare il silenzio, oppure per ascoltare ciò che ancora c'è da dire. Ci vai, ancora, nella speranza di affidarti a ciò che è duraturo, ma anche per constatare la vanità di tutto ciò che ci riguarda.
Questi e altri sono i motivi che possono spingere verso la tomba di un poeta. Tutti più o meno sono poesia essa stessa. Moltissimi si ritrovano in Qui giace un poeta (Jimenez edizioni), raccolta di 60 visite di autore ad altrettante tombe d'artista.
Si comincia con John Keats e la sua lapide al cimitero acattolico di Roma, quelle parole che si inchinano alla bellezza che è ancora più bella perché fragile: Qui giace uno il cui nome fu scritto nell'acqua. E si va avanti, per cimiteri e tombe. Raymond Carver, Giacomo Leopardi, Jack Kerouac, Robert Frost, Dylan Thomas, Dino Campana, solo per ricordarne alcuni che mi sono particolarmente cari, solo alcuni, appunto.
Come se dopo il libro che abbiamo riposto sulla nostra libreria si sperasse in una postfazione, in un bis, in un fuori programma. E quasi mai succede, però ci fa bene.
Queste tombe non ispirano un sentimento di morte, semmai manifestano l'ostinato potere della scrittura. Ce ne allontaniamo con una imprevista leggerezza, sarà che dentro ci siamo svuotati di tante inutili cianfrusaglie.
Forse scrivere è proprio questo - diceva lo scrittore peruviano Renato Cisneros - invitare i morti a parlare attraverso noi.
Forse vale lo stesso per le visite alle tombe dei poeti. Forse è proprio così che si cede alle pretese non della morte, ma della vita.
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